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venerdì 19 aprile 2024 ..:: Francesco Libetta - L.v. Beethoven ::..   Login
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 Francesco Libetta - Le Op. 2 con lo sguardo dell'Op. 109, 110 e 111. L'inizio di un'integrale. Riduci


 

 

Numerose sono le integrali sonatistiche per pianoforte di Ludwig van Beethoven oggi a disposizione dell'appassionato, compresa quella che vede in questi giorni il suo avvio sulla ribalta di tre piattaforme streaming: Amazon, Spotify e Qobuz. Il grande pianista salentino Francesco Libetta la inizia non rispettando la naturale progressione temporale dei numeri d'opera, ma con i due estremi delle tre Sonate Op. 2, la Sonata Op. 109 (la mia prediletta), la Sonata Op. 110 e l'ultima a essere stata scritta dal sommo genio di Bonn: l'Op. 111. Ci si chiederà il perché di quest'ennesima integrale, dopo quelle rilasciate da tanti altri interpreti, noti e meno noti. Innanzitutto Libetta l'aveva già affrontata, e con modalità abbastanza atipiche, pubblicando su Internet le registrazioni in formato Mp3, un algoritmo di compressione audio in verità poco "audiophile" ma adatto ai lettorini portatili di allora (sono passati diversi anni da quell'edizione). Mi sono formato un'idea abbastanza precisa sui soprassalti di "déjà-vu" che colgono chi ritiene essere pleonastica la pubblicazione di composizioni notissime (quasi una superfetazione), suonate, risuonate e strasuonate sino alla consunzione da un esercito di esecutori. Sono persuaso che bisogna in ogni caso mettere da parte quest'annoiante sensazione, per il motivo, tutto sommato intuitivo, che tra l'ideale segno scritto della partitura e la reale trasposizione in suoni c'è di mezzo l'oceano. Senza allargarsi troppo, anche un medesimo pianista può subire nel tempo delle sensibili trasformazioni, dovute al vissuto, all'evoluzione culturale e anche, a brevissimo termine, al suo umore e stato di forma del momento.

Sono elementi che rendono praticamente impossibile fissare in modo univoco una lettura, per quanto omogenea e stabile si desideri rimanga. Le inevitabili fluttuazioni umorali non riguardano soltanto chi suona ma pure chi ascolta, nel caso di una registrazione condizionato dai dispositivi di riproduzione utilizzati, se estremamente economici o milionari, se condotti su una cuffia acquistata al discount per una diecina di euro o una pregevole Sennheiser HD 660S, magari pilotata da un ottimo amplificatore, che è proprio quella che ho adoperato io in quest'occasione. L'etichetta discografica C&CO New Recording è stata designata alla cattura sonora, messa nelle mani dall'abile Valter Neri, il quale con un'opportuna microfonazione e tecnica di ripresa è riuscito a trasferire alle nostre orecchie le incredibili qualità sonore del pianoforte Borgato Grand Prix 333 "Omaggio a Bartolomeo Cristofori". Uno strumento che ho potuto ascoltare e vedere da vicino in occasione del concerto tenuto dal maestro Libetta a Città di Castello il 12/09/2021. Una vera Formula Uno dei pianoforti, composto da ben 15.000 pezzi, il più lungo Gran Coda da concerto in assoluto con i suoi 333 centimetri di sviluppo (gli altri si fermano a 270, 280) e pesante ben 745 Kg. Sono numeri che impressionano, ma ancor più lo fanno le sue amplissime potenzialità sonore per chi ha avuto la fortuna di ascoltarlo; in mani capaci è in grado di emettere una gamma dinamica "infinita", che va dal più tenue sussurro alla devastante esplosione, senza contare i suoi straordinari connotati timbrici, imponenti in gamma bassa (la più potente e materica che abbia mai ascoltato, quasi tellurica direi), il medio-alto squillante e argentino.

Esistono pianoforti dalla timbrica magari più morbida, ma nessuno di quelli che ho ascoltato (e sono molti) è dotato di una tale potenza e nettezza di contorni sonori. Siamo al cospetto di una registrazione sincera, autentica, non sottoposta a febbrili interventi di editing per renderla perfetta all'orecchio quanto distante dalla schiettezza di una prestazione dal vivo. Ma cosa affronta, anzi riaffronta, oggi Francesco Libetta? Un "corpus" di 32 sonate per pianoforte composte tra il 1795 e il 1822, considerate un vero e proprio monumento musicale e non da oggi, visto che Hans von Bülow le chiamò "Il Nuovo Testamento della musica", in contrapposizione all'Antico Testamento che era Il clavicembalo ben temperato di Johann Sebastian Bach. Il loro valore musicale, altissimo, ne conchiude un altro, relativo al passaggio dello strumento dai salotti alle sale da concerto, implicante una potenziata capacità decibelica di suono, creando una sorta di "ponte tra il mondo del salone e la sala da concerto", come affermò Charles Rosen. E quale strumento più adatto del Borgato per esprimere quest'importante cambio di rotta? Parlavamo di trentadue sonate ma in realtà sono trentacinque, se mettiamo nel conto anche le Tre Kurfürstensonaten WoO 47 del 1783 (vi consiglio la scintillante lettura di Jenő Jandó), alle quali si possono aggiungere anche la Sonata in Fa maggiore Werke ohne Opus 50 e la WoO 51 in Do maggiore (1791-98). Libetta è artista proteiforme, difficile da incasellare in una figura agevolmente collocabile, sempre operante con l'ottica di massimizzare la tecnica in funzione di un'espressività costantemente impegnata a cogliere degli addentellati con le altre arti.

La prediletta coreutica innanzitutto, poi la pittorica, la scultorea. Le sue sonorità possono allora essere di una grande precisione geometrica o risultare avvolte da una nube luminosa di colore che si va stemperando sulla tastiera. Libetta può essere Giotto o Monet, passando dall'uno all'altro con irrisoria agevolezza. La lisztiana Chapelle de Guillaume Tell, dagli Années de pèlerinage, in una sua recente registrazione porta il segno di un'umana teatralità, insieme alla somma abilità di edificare grandiose architetture sonore, foriere di suoni potenti e stagliati su un ideale palcoscenico. Con lui viene naturale deviare dallo stringente percorso stabilito da una recensione, chiamata a occuparsi per forza di cose di una singola registrazione, sia pur essa una silloge di brani. Ecco perché l'Op. 109 può essere propedeutica, se non premonitrice, delle atmosfere esistenti nelle tre Sonate Op. 2, utile a giustificare le scaturigini espressive e l'impronta stilistica data alle prime tre sonate. Nella N. 30 ci troviamo di fronte a un interprete guardingo, poco disposto a un'esposizione laccata in superficie e atta a imbellettare più che penetrare in profondità. Ecco che il "ridondante" Libetta della Chapelle sottopone questo Beethoven a un processo di spoliazione, che agevola la discesa in impensabili profondità, liberato dalla zavorra di una forma stringente, che lui sottopone a delle variazioni agogico/dinamiche di grande estro. Qualcosa di molto lontano da certi "super-computer" che oggi impazzano sulla scena.

 



È sufficiente solo qualche esempio per comprendere a quali livelli d'introspezione si ponga la sua lettura, come il ritardando alla battuta 17 del primo movimento "Vivace, ma non troppo. Sempre legato."  Si coglie un grande senso di rarefazione, l'esaurirsi di un respiro che prepara e conduce al Tempo I "leggiero". O nel Prestissimo, certamente carico di un'ineluttabile drammaticità, ma non spinto all'esasperazione, in modo da conservare una temperie equilibrata, che rimane sempre sorvegliata e libera da toni esageratamente eclatanti. Enigmatica è la discesa verso atmosfere abissali nella sezione "b" (misura 70) sapientemente calibrate in un'uniformità atta a non turbare la discesa e una certa stasi espressiva. Si tratta di quiescenze dal carattere temporaneo, di preparazione a un cambio di clima, quasi catatoniche, similarmente a quella che troviamo nelle Variazioni Diabelli Op. 120 (la Variazione III con l'iterazione a vuoto delle battute 21-24). L'assorta liricità che si affaccia nell'Andante molto cantabile ed espressivo viene resa con una libertà cogente, piegata cioè all'obbedienza di logiche espressivo/descrittive, pur apparendo affrancata da pressanti vincoli formali e ritmici. L'andamento è riflessivo, sereno, ispira una grande pace interiore, non turbata da nulla. A seguire sei variazioni una più bella dell'altra, come un viaggio le cui stazioni offrono continue e inesauribili meraviglie, un itinerario che si conclude tra lo sfavillio dei trilli, una sorta di substrato a sostegno del baluginante incanto, prima del riaffacciarsi del motivo principale.

Anche l'Op. 110 e Op. 111, forse più sbilanciate su un versante cosmico, sembrano sottoposte a quel processo di ripulitura dalle concrezioni interpretative accumulatesi nel tempo. Francesco Libetta passa l'acetone per eliminare quello smalto che maschera il naturale incarnato del vallo ungueale. Il primo tempo della N. 31, "Moderato cantabile, molto espressivo", viene affrontato con scorrevolezza, ma subisce delle tregue che favoriscono una netta differenziazione espressiva tra i vari frangenti. Il nostro pianista evidenzia la struttura rapsodica del movimento, pur nel rispetto di un impianto orientato verso la forma-sonata, con le tre classiche parti dell'Esposizione, Sviluppo e Ripresa con Coda finale. Una stasi che si approfondisce sino alle sue estreme conseguenze nell'Adagio ma non troppo in 8/8, preceduto da un febbrile Allegro molto, dove l'uniformità del suono è totale, come il controllo esercitato su ogni singola nota. Veniamo immersi in un'atmosfera crepuscolare, quanto mai rarefatta, dalla quale è impossibile smarcarsi e che sfocia nel contrito Arioso dolente, lancinante immagine di un cuore nudo, dolorante per la sofferenza di un'esistenza vissuta senza risparmio, che lo ha lasciato senza forze e in uno stato di desolazione. Ma le riserve vitali non sono esaurite, non possono finire: la Fuga Allegro non troppo è l'occasione della risalita verso l'azzurrità del cielo. A questa travagliata odissea, spezzata in mille subitanei rivoli di sentimento che nessun rigido sviluppo formale potrebbe efficacemente rievocare, si affaccia il "L'istesso tempo della Fuga", dopo una serie di semicrome in levare che descrivono l'ascesa.

È il perenne rinnovarsi della vita, annunciato dal "Poco a poco di nuovo vivente". Si può recensire anche una sola nota, se questa assume eccezionale risalto; è il caso dell'"ff pesante" alla misura 48 della "Fuga Allegro non troppo", che scuote improvvisamente chi ascolta con un "effetto sveglia" reso a meraviglia dal pianista grazie a un poderoso affondo dinamico, quale può consentire un pianoforte come il Borgato. La temibilissima Sonata N. 32 in Do minore Op. 111, terza della triade e ultima scritta da Beethoven, non è particolarmente nelle mie corde, a differenza dell’Op. 109, se non per l'Arietta: Adagio molto semplice e cantabile, irresistibile nel suo sublime appalesarsi. Ma questo non interessa a nessuno, a parte me. Ciò che invece è importante è la forza, la determinazione e l'abilità tecnica con cui il pianista di Galatone affronta questo capolavoro estremo, per lui come per chiunque altro interprete un autentico tour de force che impegna allo spasimo. Opera estrema, in tutti i sensi, fu una delle sue ultime composizioni per pianoforte, insieme alle Variazioni Diabelli in Do maggiore Op. 120 (datate 1823) e alle due raccolte di Bagatelle Op. 119 (1822) e Op. 126 (1824). Davvero una grande prova di maturità artistica da parte di Francesco Libetta, che è riuscito nell'intento di mettere in presa diretta l'ascoltatore con il pensiero germinale di Beethoven. L'approccio dinamico sviluppato in queste ultime sonate non è il medesimo che troviamo nelle tre iniziali dell'Op. 2. Dal battere estenuato, come dei rintocchi presaghi della fine, si passa a una baldanza tutta giovanile, carica di aspettative, resa con quel magistero tecnico e non che tutti gli riconosciamo, rivelato da un pianismo che può diventare anche eminentemente percussivo, dal carattere intenso e martellante come nelle prime misure della Danse russe dai Trois mouvements de Petrouchka.

Sono da tempo convinto sostenitore di un'idea: per la comprensione globale dell'arte di un grande interprete occorre tempo e frequentazione dello stesso, in tutte le sue sfaccettature, evoluzioni ed eventuali involuzioni, compresi i momenti di trionfo e débâcle (se avvengono). Si cade in piedi nel passaggio dalla N. 30 alla prima delle tre sonate Op. 2. Francesco Libetta mette in orbita sulla tastiera l'iniziale "Razzo di Mannheim" con compostezza e un haydniano spirito di sorpresa. Nello sviluppo mitiga eventuali intemperanze con una morbida descrittività, tira un fendente solo quando deve, e perciò con maggior risalto, lasciando altri momenti sotto l'egida di un controllo, di una morigeratezza che gli sono valsi l'attributo di "sprezzatura", riferito a un'arte pianistica che diversi critici hanno individuato come adorna di un superiore distacco, spontanea e naturale. Nel solco di un affettuoso classicismo s'incanalano le tre Sonate dell'Op. 2, la N.1 in Fa minore, la N. 2 in La maggiore e la N. 3 in Do maggiore, composte da un Beethoven venticinquenne. Il Rondò Grazioso della N. 2 Op. 2 dispiega all'inizio una frase di grande eleganza, per'altro difficile da modulare ritmicamente poiché composta da una quartina di semicrome, una terzina di semicrome e una quartina di biscrome, con un effetto di progressivo accelerando. Libetta la arabesca con finezza e arguzia, non senza una buona dose d'ironia. Questo particolare mi colpì molto al primo ascolto, avvenuto nell'ambito della trasmissione radiofonica "Il pianista", condotta da Luca Ciammarughi e dedicata al pianista salentino.

Lo stile e l'approccio maturati da Francesco Libetta in quest'inizio d'integrale traggono giovamento dal concetto di retroattività, come di persona che alla fine di un percorso si volta indietro a guardare il punto da cui è partito. Non per caso nella prima uscita si son voluti accostare i due estremi della produzione sonatistica beethoveniana, un prima e un dopo, o meglio un dopo e un prima, che consente all'ascoltatore di cogliere il nesso interpretativo che unifica i differenti periodi esistenziali e artistici dell'autore, potendo così convogliarli in un chiarificatore filo rosso. Questo è sintomatico di un atteggiamento niente affatto stereotipato, cioè riconducibile a un tipo di affettività costituita a priori, impersonale, che scatta uguale in determinate occasioni piuttosto che in altre. Ancora un esempio può aiutarci a comprendere quanto sia sottilmente variegata l'arte di Francesco Libetta. Ascoltiamo l'Adagio dell'Op. 2 N. 3, intriso di semplicità e candore, appena screziato da qualche nube di passaggio nella parte centrale (il Poco più animato) e poniamolo a confronto con le profondità metafisiche residenti nei movimenti lenti delle ultime tre sonate. Quel "Gesangvoll, mit innigster Empfindung", Andante molto cantabile ed espressivo (Pieno di canto, con il più intimo sentimento) della N. 30, il breve ma intensissimo Arioso dolente dell'Op. 110 e l'Arietta della N. 32. In ognuno di questi movimenti viene conservata la chiarezza e la linearità dei temi, quel canto semplice di cui parlavamo, qui gravido di un'inestimabile potenza espressiva.

La differenza che il pianista è chiamato a sottolineare sta tutta nell'avvicinamento a due tipi di stati d'animo inerenti a una contingente situazione esistenziale, direi diametralmente opposti. Immaginiamo la distensiva passeggiata primaverile di un giovane lungo un sentiero campestre, lieta e leggera, e il passo stanco di un anziano che percorre una strada ammantata di neve, in una delle ultime escursioni della sua vita. Francesco Libetta ricrea l'uno e l'altro contesto facendo leva su una sapiente modulazione espressiva, lavora su suoni che appaiono sospesi, irrisolti, generatori di echi che si prolungano oltre la loro fisicità per invadere il campo dello spirituale, mentre nel citato Adagio dall'Op. 2 N. 3, capta un incedere pacioso, di una semplicità "tout court", che non abbisogna di soverchie spiegazioni né prelude a metamorfizzazioni prospettiche.

 




Alfredo Di Pietro

Dicembre 2022


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