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 Intervista a Dino Villatico Riduci

 

 

Alfredo Di Pietro: Nel ringraziarla per l'intervista concessami, come prima domanda le chiedo dove, come e quando nasce la sua passione per la musica. In realtà, in quest'interrogativo di rito iniziale potrei allargare l'ambito includendo anche la cultura letteraria e filosofica.

 

Dino Villatico: Mia nonna suonava il pianoforte, mia madre l'arpa, mia zia cantava e mio nonno, che però non ho conosciuto, suonava il violino. La musica era di casa. Mia madre, quando ero bambino, oltre alle fiabe dei fratelli Grimm, di Andersen, mi raccontava le trame delle opere, Rigoletto, Tosca, Andrea Chénier. Così fu per me naturale cominciare lo studio del pianoforte già da bambino. Mio padre aveva vinto la cattedra di geometria analitica all'Università della Plata, in Argentina, e fu mandato ad aprire una succursale dell'università più a sud, a Bahía Blanca, il porto mercantile dell'Argentina ai confini meridionali della Pampa, 850 km a sud di Buenos Aires. È lì che cominciai a studiare il pianoforte. Era il 1949, avevo 8 anni. La vita culturale della cittadina era ricchissima, la stagione dei concerti degna di una capitale, superiore comunque alle stagioni della nostra provincia italiana: ascoltai Gieseking, Backhaus, Fournier, Malcuzsynski, Solomon, e altri. Gieseking mi fece innamorare di Debussy e Ravel. Mia nonna mi aveva instillato l'amore per Chopin e per Beethoven. Il teatro era invece raro. Ma venne una compagnia da Buenos Aires e le prime due opere che vidi furono il Barbiere di Siviglia di Rossini e il Pipistrello di Johann Strauss figlio. Fu una scelta intelligentissima di mia madre introdurmi al melodramma con due opere comiche. Poi c'erano i dischi. Intanto a scuola entravo a contatto anche con la letteratura di lingua spagnola. E in più studiavo l'inglese. All'asilo avevo avuto il primo contatto con il francese. Fin da bambino dunque mi misurai con più lingue. Pensavo in più lingue. Quando rientrai in Italia su questo punto i miei compagni di classe mi apparvero indietro. M'innamorai subito del greco. I primi rudimenti del latino mi erano stati insegnati da mia madre. Ecco dunque che già da ragazzo avevo familiarità con più lingue. Approfondii la mia conoscenza dell'inglese e all'università si aggiunsero il francese e il tedesco. Leggere Euripide in greco e Goethe in tedesco era una gioia immensa. Tanto che alla fine interruppi gli studi musicali per dedicarmi a quelli letterari. Ma avevo tuttavia già preso familiarità con i rudimenti della composizione. Proseguii per mio conto.

 

ADP: Nel libro "Amata e lontana" di Alessandro Maria Carnelli è proprio lei ad aprire le danze con una profonda riflessione su J.S. Bach. Ho in particolare apprezzato il suo coraggio nel toccare un tema, quello del rapporto tra musica e matematica, che reputo spinoso per il rischio che ha d'ingenerare dei malintesi, nell'accostamento tra una scienza "fredda" come la matematica e un’arte che si ritiene invece portatrice di emozioni. Pensa che questo sia un pregiudizio ancora oggi da combattere?

 

DV: L'impatto con Bach fu decisivo. In Italia, diceva mio padre, che era un matematico, si studia male la matematica, e troppo tardi. Bisogna cominciare fin da bambini. La prendono per un gioco e quando si familiarizzano con i giochi matematici sono pronti a sperimentare le avventure della fisica. Lo stesso è con il disegno, con le lingue. Bisogna imparare subito, da bambini a disegnare, a parlare più lingue. A studiare come lingue - perché sono lingue - anche le lingue classiche, il greco e il latino, e non come un repertorio grammaticale e sintattico. La mia professoressa del ginnasio ci obbligava a mandare a mente venti parole di greco al giorno. E poi ci faceva esercitare a tradurre senza vocabolario. Non la ringrazierò mai abbastanza. Ritornando alla matematica, essa regola tutta la nostra vita, anche quando non ce ne accorgiamo. Da Bach - come poi da Leopardi e Baudelaire - imparai che l'arte, la poesia, non sono l'ispirazione del momento, ma un lungo e paziente lavoro di costruzione. L'ispirazione è benvenuta, ma l'opera nasce poi dall'elaborazione di quella ispirazione. In questo, l'analisi musicale aiuta a capire anche la poesia, come si scrive una poesia. La matematica non è fredda. Non esiste una vera separazione tra la regione dell'emozione e quella del raziocinio. Nel cervello sono congiunte e s'influenzano a vicenda. Un disturbo, un difetto dell'una distorce anche l'altra. Il primo canto del Paradiso di Dante si chiude con un inno all'armonia dell'universo che è una splendida sintesi del pensiero di Aristotele e di San Tommaso. "Le cose tutte quante / hanno ordine tra loro, e questo è forma / che l'universo a Dio fa simigliante". Dove finisce la filosofia e dove comincia la poesia? Non è possibile stabilirlo, perché agiscono insieme. Ma bisogna sapere che cosa è "forma" e perché questa "forma" rende l'universo somigliante a Dio. È un concetto aristotelico, ciò che fa essere una cosa ciò che è. L'altro termine è "materia": ora tutto l'universo è materia che prende forma. In un altro canto Dante spiega la difficoltà della poesia perché "spesso la materia è sorda", "non corrisponde all'intenzion dell'arte".  Anche per Dante scriver è lavoro, fatica, ricerca, non ispirazione subitanea. Questo insegnamento me lo sono portato dietro tutta la vita. Studiare, capire è difficile. L'insegnante che voglia far sembrare facile, subito raggiungibile la conoscenza sta mentendo all'allievo, lo sta ingannando. Dante parla di "lungo studio". E ha ragione. Su questo temo che la scuola di oggi stia sbagliando tutto. Vuole risparmiare fatica agli allievi, quando invece solo la fatica del "lungo studio" fa raggiungere risultati accettabili. Questo chi studia, che so pianoforte, lo impara subito. Ma anche uno sportivo: lo sport richiede rinunce, fatica, lavoro. Perché lo studio dovrebbe essere diverso? Il pregiudizio della facilità a tutti i costi si unisce qui con il pregiudizio che certe cose sono aride e altre invece commuovono. Ma la nobiltà dello studio, scrive Aristotele, nel libro che dedica alla generazione degli animali, non è dato dal suo oggetto, bensì dalla validità del suo metodo di ricerca: studiare un verme non è meno nobile che studiare un uomo, perché la nobiltà sta nello studio. Questo è proprio l'esempio che fa Aristotele. Del resto lui pensava che gli animali sono un unico regno che va senza soluzione di continuità dall'insetto all'uomo. Non conosceva l'esistenza dei microbi. E tutti hanno un'anima. Che è la vita. In più l'uomo ha solo il linguaggio, che è la sua differenza specifica. Darwin gli rende omaggio come al primo scienziato che l'abbia capito.

 

ADP: Al Blog Dionysos41 sono affidati i suoi pensieri, le sue riflessioni sull'arte e su altro, che lei riesce a comunicare con immediatezza, pur nella complessità di un linguaggio ad alta densità culturale. Possiamo considerarlo come un'anfora in cui ripone in modo capillare le sue confessioni, affinché siano da stimolo ad altre persone?

 

DV: Confessioni? Forse. Ma solo nel senso con cui può intendere il termine un Agostino o un Rousseau. Ricerca, dunque. Su vari piani. Letterari, prima di tutto. Ma anche politici, linguistici, filosofici. Difficile separare i campi. Confucio dice che un poeta che scriva brutti versi va condannato a morte, perché il dovere di un poeta è di scrivere bei versi. Si tratta naturalmente di un paradosso, di una provocazione. Ma ha tutte le ragioni. Allora nel mio blog mi sperimento, mi sottopongo al giudizio degli altri.

 

ADP: Nel suo scritto "Un frammento dai Mirmidoni di Eschilo" traspare il suo grande amore per il teatro greco. È possibile secondo lei stabilire un parallelo tra l'intrinseca musicalità dei versi del Lamento di Achille e una composizione musicale?

 

DV: I greci avevano intuito una verità che a molti oggi sfugge: la musica e il linguaggio usano la stessa materia, il suono. Va aggiunto che la lingua greca, ancora oggi - è la stessa da quattromila anni, si è solo con il tempo evoluta o piuttosto ha cambiato qualcosa, per esempio il sistema verbale, che però ha mantenuto l'aspetto con cui è presentata l'azione, ma sostanzialmente è la stessa che parlavano Pericle e Asclepiade e gli scrittori e i poeti di oggi lo sanno, tanto è vero che quando gli serve saccheggiano il repertorio classico - la lingua greca, dice, è una lingua profondamente musicale, ha perduto, come le lingue neoromanze, il senso della quantità, ma ha conservato il senso tonale degli accenti. E da subito la poesia greca si pone come il luogo delle domande, delle questioni. I primi filosofi scrivono in versi. Aristotele dice che non è poesia, ma qualcosa della poesia il verso di Parmenide, di Empedocle lo conserva. Eraclito scrive già in prosa, come poi faranno tutti i filosofi (il latino Lucrezio è un caso singolare di rievocazione del poeta filosofo). La Teogonia di Esiodo si apre con un incontro del poeta con le muse, le quali gli dicono che sanno dire molte menzogne che sembrano verità, ma altresì anche molte verità che sembrano menzogne. E poi comincia a cantare la generazione degli dei. Il teatro greco affonda qui. Non ha risposte da dare al pubblico, ma gli pone domande che possono turbarlo, inquietarlo. E inquietano, turbano ancora oggi. Nell'Edipo a Colono di Sofocle, Edipo ormai cieco dialogando con Teseo gli dice che non si sente, non è colpevole di ciò che ha compiuto, uccidere suo padre, accoppiarsi con sua madre e generare quattro figli dallo stesso ventre che aveva generato lui. Non è colpevole, perché non lo sapeva. Ma allora, se era destinato a compiere questi crimini, perché proprio lui, perché tra tutti proprio lui era destinato a compierli? Gli dei non rispondono. Edipo s'introduce nel bosco delle Eumenidi e scompare. Cambiamo domanda, attualizziamola. Perché uno nasce in una famiglia ricca a New York e un altro povero nella striscia di Gaza? Shakespeare dirà che anche la morte di un passero ha un senso. Ma quale?

 

ADP: Personalmente non apprezzo l'atonalismo, la dodecafonia, la Seconda scuola di Vienna, probabilmente non comprendendone il suo vero valore. Questa, in realtà, più che una domanda è la non tanto velata richiesta di un consiglio da parte mia: cosa potrebbe aiutarmi a entrare nello spirito dei Tre canti per voce grave Op. 48 di Arnold Schönberg piuttosto che nel Quartetto per violino, clarinetto, sassofono tenore e pianoforte Op. 22 di Anton Webern?

 

DV: Ritorniamo a quanto ho detto all'inizio. Anche l'arte non è ispirazione, emozione, o meglio non è solo ispirazione, emozione, ma costruzione, fatica, lavoro. Anche quando l'artista non sa di fare arte. Per esempio gli scultori dei totem africani. Ma anche gli scultori greci, almeno quelli arcaici, scolpivano dei, non opere d'arte. Nel momento in cui si rendono conto che l'opera acquista un valore se fatta in certo modo e non ne ha nessuno o ne ha uno che non riguarda il "bello", se fatta in un altro modo, si chiedono anche in che cosa consista questo valore. E cominciano a cercare le regole che lo determinano. Prassitele inventa - o scopre - il canone che fa bello un corpo, Aristotele indaga che cosa renda avvincente un poema, una tragedia. Da allora l'artista è consapevole che se agisce in un modo fa arte, se in un altro fa un'altra cosa. Gli intellettuali e gli artisti, gli scrittori, i poeti ellenistici credono di avere trovato il bandolo della matassa, e noi, dopo più di duemila anni siamo ancora artisti, scrittori, poeti, musicisti ellenistici. Che ne siamo consapevoli o no. I calcoli della scrittura contrappuntistica dell'Ars Nova francese o dei compositori franco-fiamminghi del Quattrocento, fanno impallidire le più astruse invenzione delle avanguardie novecentesche. Gli oppositori, i critici ricorrevano agli stessi argomenti degli oppositori e critici di oggi: ma disturba le orecchie, non è musica, non è seguibile, non si capisce niente, è rumore, non melodia. Un papa, Giovanni XXII, emanò addirittura una bolla contro questa nuova musica che non è musica. La questione è immensa. E non si può condensare in poche righe. Ma il criterio sbagliato per affrontare la questione è proprio quello di appellarsi al proprio gusto, che naturalmente apprezza ciò che è abituato ad ascoltare. "Mi piace non mi piace, dice la gente. Come se al mondo non ci fosse niente di più importante da fare che piacere alla gente, scrive Schumann. La musica, come del resto anche la poesia, non si rivolge a tutti, ma ha diversi livelli di ascolto e diversi destinatari, tutti legittimi dal più artificioso al più semplice e accattivate che cerca di piacere a tutti. Ma non bisogna pretendere dal livello artificioso che soddisfi le esigenze dei livelli più semplici. Pelléas et Mélisande è forse l'opera più bella del novecento, ma piace a pochi, e non può competere che so con la Bohème.  Chi cerca l'emozione di Bohème nel teatro musicale non ascolti Pelléas. Il Wozzeck di Berg è un capolavoro assoluto, ma chi vuole la melodia riconoscibile non l'ascolti. Mondrian dipinge quadri apparentemente semplici, in realtà intricatissimi, calcolatissimi. Ma chi non ha familiarità con la pittura astratta se ne astenga. Non è obbligatorio che piaccia a tutti. L'arte non è democratica. Nessuna attività intellettuale, in sé, lo è. Democratico è costruire un sistema d'istruzione che renda a tutti possibile capire l'astrazione. Il discorso è complesso. Ma nulla è più lontano dall'arte che l'attuale sistema dei like come funzionano nei social. A chi risulti ostica certa musica del novecento e di oggi, forse la via più agevole per entrare in quel mondo è accostarsi al teatro. Oltretutto il novecento è secolo teatrale assai prolifico. Come forse solo l'epoca barocca.

 

ADP: Questa sesta domanda è in qualche modo collegata alla precedente. Come non capisco la musica atonale, confesso di provare una forte attrazione per Karlheinz Stockhausen e per la sua visionaria ricerca timbrica elettronica. Passione che condivido con lei, che conobbe il compositore di Kerpen al suo primo concerto romano. Lei salì sul palco, come ha dichiarato in un'intervista, perché voleva conoscerlo. Lo rincontrò dopo anni e lui la riconobbe, dicendole "Sei quel pazzo che è salito sul palcoscenico a chiedermi l'autografo". Come reputa il contributo alla storia della musica di questo eccentrico e geniale compositore, una delle figure più carismatiche della Scuola di Darmstadt le cui teorie compositive ebbero valore seminale non solo nella musica contemporanea, ma anche nel Jazz e nella musica popolare?

 

DV: Stokchausen è una delle quattro o cinque figure fondamentali della musica del secondo novecento. Gli è inoltre riuscito di coinvolgere anche chi in genere non ama la musica d'avanguardia. Tra i pochi compositori che hanno saputo essere assai artificiosi ma creando musica che all'ascolto seduce. Prima di lui Bach o Beethoven. È un talento speciale che non si può inventare. Un dono delle Muse.

 

ADP: Parliamo dei Social, se le va. Per lei sono un diversivo, un modo per rilassarsi o un mezzo cui consegnare i suoi pensieri più profondi?

 

DV: Gli strumenti di comunicazione sono strumenti. Dipende da come si usano. Esistono certo molti condizionamenti e l'algoritmo del corretto a tutti i costi può limitare la libertà di comunicazione. Con l'uso dell'Intelligenza Artificiale andrà ancora peggio. Ma lo stesso si può ritagliare il proprio spazio ragionevolmente libero dai condizionamenti. Il problema non sono i social. I social mettono in evidenza un problema diffuso della comunicazione odierna, anche fuori dei social: l'incapacità di argomentare.

 

ADP: Un argomento cui sono molto sensibile è quello della critica musicale, in cui lei, illustre recensore, può sicuramente dire la sua. Cosa pensa in particolare delle persone che si cimentano nella critica con delle basi claudicanti se non assenti? A tal proposito le cito un'affermazione di Elisabeth Schwarzkopf, la quale alla domanda di che cosa avvertisse l'assenza nei critici, rispose: "Del rispetto per l'artista". La frecciata era a quanti pretendevano di recensire un concerto di Lieder senza avere idea della preparazione intellettuale, musicale e vocale che c'è dietro un'esibizione del genere. "Nessun critico privo di formazione vocale" aggiungeva "dovrebbe permettersi di esprimere giudizi su un o una cantante."

 

DV: Il problema è soprattutto italiano. Giorni fa alla televisione un'economista britannica giustamente osservava in una discussione che solo in Italia a discutere di economia alla televisione si chiamano i giornalisti e non gli economisti. E lo stesso accade in tutti i campi. In Italia tutti credono di poter parlare di tutto, soprattutto di ciò che non sanno. La competenza è sentita come un impaccio, perché la gente se no non capisce. E poi perché in Italia si dovrebbe avere rispetto per gli artisti quando nessuno ce l'ha per nessuno?

 

ADP: La critica musicale professionale, quella invece al di sopra di ogni sospetto, com'è cambiata nel tempo? Personaggi della caratura di Franco Abbiati, Mario Bortolotto, Piero Buscaroli e tanti altri che peso avrebbero oggi, in cui questa funzione sembra aver smarrito lo splendore di un tempo?

 

DV: La critica, letteraria, d'arte, musicale, in Italia non esiste più. Non la vogliono i direttori dei giornali, delle riviste. Preferiscono gli annunci, le presentazioni, sempre più simili a slogan pubblicitari. Dei nomi sopra citati veramente illustre, veramente serio era solo Mario Bortolotto. Gli altri due fuori d'Italia non sono conosciuti, soprattutto Buscaroli. E in sé, valgono poco. Mi dispiace per Abbiati, che dà un nome anche a un premio. Ma non posso farci niente. La realtà è questa.

 

ADP: Mi consenta un'ultima domanda. Come occupa il suo tempo Dino Villatico quando non scrive o studia. In buona sostanza quali sono i suoi passatempi preferiti?

 

DV: Leggo, scrivo, un tempo suonavo e molto spesso interi pomeriggi - oggi molto meno, le mani non mi ubbidiscono più - , vado al cinema, a teatro, ai concerti, ascolto musica. E viaggio. Visito città, paesi, musei. Mi piace conoscere altri popoli, altri costumi. E mi fa arrabbiare la poca curiosità degli italiani per gli altri, vanno nei paesi, gli interessano le spiagge, i musei - ma in confronto i nostri sono sempre migliori - rimpiangono come si mangia da noi. Io ho mangiato bene, spesso benissimo, dovunque, ma mangiano ciò che mangiano nei posti dove vado. Anzi, a dirla tutta, la ristorazione in Italia è decaduta a livelli vergognosi, sono pochi i posti decenti. E il servizio lascia a desiderare quasi dovunque. In città come Roma, Venezia, Firenze si può essere quasi avvelenati dalle schifezze che servono come pietanze, se non conosci il locale. E almeno Roma e Firenze anni e anni fa erano città dove mangiavi dovunque decentemente, anche se non in maniera raffinata. A Venezia sono sempre stati pochi i posti raccomandabili. Ma qualcuno straordinario. In provincia si sta molto meglio. Nel borgo sabino dove vivo due o tre posti sono addirittura notevoli. In ogni caso le attività principali con cui trascorro la giornata sono leggere e scrivere. Un tempo mi divertivo anche a cucinare. Adesso molto meno. Adoro leggere la poesia e, se possibile, nella lingua in cui è scritta. Anche i romanzi e la letteratura storica, critica, scientifica preferisco leggerla nella lingua dell'autore. Adesso sto leggendo un delizioso saggio sui gatti: Dans la tête d'un chat di Jessica Serra, Paris, Èditions Umanscience, 2019. Ho regalato a un'amica la traduzione italiana Nella testa di un gatto, Carocci, 2024. E anche lei ne è rimasta colpita.

 

Alfredo Di Pietro

 

Marzo 2024


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