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venerdì 19 aprile 2024 ..:: Intervista al maestro Sandro Ivo Bartoli ::..   Login
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 Intervista al maestro Sandro Ivo Bartoli Riduci


 

 

Alfredo Di Pietro: Maestro, nel ringraziarla per l'intervista concessami, desidererei conoscere la sua scaturigine di musicista: quando, dove e come nasce la sua passione per il pianoforte?


Sandro Ivo Bartoli: Molto semplice, è nata come una minaccia. Vivevo in una casa in Toscana, dove al piano superiore abitava la mia nonna paterna, la quale era figlia di un grande musicista e desiderava che io mi avvicinassi alla musica tramite il pianoforte. Allora potevo avere otto, dieci anni ed ero molto più interessato ad andare a pescare o saltare fossi che non a studiare musica, quindi non me ne curai per nulla. Poi mia nonna morì, avevo dieci anni, e i miei genitori ristrutturarono la casa. Un bel giorno, quando di anni ne avevo invece 12, mia madre mi disse: "Senti caro, io venderei il pianoforte perché tu non lo guardi mai". Dissi allora che avrei provato a studiarlo, così è stato e tre anni dopo tenni il mio primo concerto.


ADP: Un evento molto importante nella sua vita è stato la conoscenza del grande pianista russo Shura Cherkassky, poi divenuto suo maestro. Potrebbe lasciarci un suo personale ricordo di quest'indimenticabile artista?


SIB: Era una persona decisamente particolare, molto sola perché passava dieci mesi all'anno tra aeroplani, sale da concerto e alberghi. Non lo conoscevo, lo sentii suonare in un recital dove celebrava i suoi ottant'anni, in quell'occasione m'impressionò tantissimo. Avevo letto su un giornale che lui risiedeva a Londra, vicino alla mia abitazione, allora gli scrissi una lettera e dopo qualche mese ricevetti la risposta. Pian piano diventammo amici, mi dette una mano a formarmi le basi della musica, insieme alla conoscenza del mondo concertistico di un certo livello. Era un musicista di genio, parlava di musica poco volentieri, ma quando lo faceva riusciva a illuminare anche le cose più complesse. Era una persona che ha cambiato la mia vita.


ADP: Parliamo di Domenico Scarlatti, un musicista che personalmente adoro. Dal dodici aprile 2020, in piena pandemia da COVID-19, lei ha dato avvio alla pubblicazione giornaliera sul suo canale YouTube di tutte le Sonate per tastiera del grande musicista napoletano, operazione che ha raccolto un vasto consenso di pubblico. A suo parere, cosa rende ancora così attuale la sua musica?


SIB: Un po' tutto, a principiare dalla sconfinata fantasia. Di lui ci sono rimaste almeno 558 sonate, nelle quali non si è mai ripetuto essendo ognuna diversa dall'altra. Siccome era un grandissimo virtuoso della tastiera, era riuscito a scrivere cose che sono divertenti da suonare e ancor più da ascoltare. Consideri che nella sua musica ci sono anche degli elementi etnici, portoghesi, spagnoli, naturalmente napoletani. Qua e là ci sono pure dei trucchi di luce araba. Si tratta di una musica scritta nel primo '700 ma che guardava decisamente in avanti, oggi suona assolutamente attuale, insuperata nel suo senso di novità.


ADP: Di Scarlatti vorrei citarle la Sonata in sol minore K. 30 (L. 499), conosciuta anche come Fuga del gatto, denominazione che in realtà non venne mai formulata dal compositore, ma risale a un aneddoto del XIX secolo. Nell'incipit, il moto ascensionale delle note sol, si, mi bemolle, fa diesis, si bemolle, do diesis mi ha sempre suggerito la salita verso regioni misteriose, dove l'animo sembra voler entrare in territori inesplorati della coscienza. Su queste note poi Scarlatti ha edificato una meravigliosa fuga. Posso chiederle qual è il suo personale sentire su questo noto brano?


SIB: È stata per me una delle sonate di più difficile interpretazione. Molto celebre, ha un sottotitolo un po' spiccio ed è una delle poche eseguite dai concertisti già nell'Ottocento. Ho dovuto impararla "ex novo", guardandola da una prospettiva quanto più obiettiva possibile. Le do ragione sull'enigmaticità di quel tema, dal carattere dissonante, che rende l'impressione dell'ascendere a regioni misteriose, ma il prosieguo della fuga è, tecnicamente parlando, un po' disordinato, non è troppo razionale e non si attiene alle regole. Ricordiamoci che il compositore operò un geniale rinnovamento di tutte le regole musicali, incluse quelle che aveva formulato lui stesso, nel tentativo di dare ascolto all'unica legge per lui accettabile, che era quella dell'orecchio. In questa fuga del gatto lui assolutamente se ne infischia dei dettami del contrappunto, che conosceva a menadito, mettendo insieme una fuga/fantasia, chiamiamola così, di grande effetto. C'è anche da dire che Domenico Scarlatti veniva assolutamente dalla scuola di suo padre, Alessandro, e la sua percezione del contrappunto affonda le radici in Frescobaldi, Pasquini, Gabrieli, cioè compositori italiani della generazione precedente, fautori di un modo di far musica che fu piuttosto rimosso dai tedeschi. Furono proprio questi a rendere popolari certi generi: se oggi si nomina la Fuga, non si pensa a Scarlatti ma, giustamente, a J.S. Bach. Il contrappunto del grande compositore napoletano era più libero, secondo me anche più immediato, maggiormente semplice da ascoltare, precisando che queste sono impressioni personali.


ADP: È davvero notevole la sua vastità di sguardo. Oltre al citato Domenico Scarlatti, lei si è interessato al repertorio italiano del primo Novecento con Casella, Malipiero, Respighi, Pizzetti, Berio. Passando al repertorio tardo romantico, ha eseguito opere di Rachmaninov, Shostakovich, senza trascurare autori come Beethoven, Franck, Chopin e Liszt. E ancora Puccini, Johann Sebastian Bach, Jeffrey Roden, Busoni, Lotichius, Grainger, Pabst (ma sicuramente ho dimenticato qualcuno). Da cosa deriva questa sua grande ecletticità?


SIB: Einstein diceva di non perdere mai la sacra curiosità, la vera molla che porta a incrementare le proprie conoscenze, musicali nel mio caso. Ho la fortuna di avere una buona prima vista, per cui mi riesce facile leggere musica nuova. Penso che un concertista, vale a dire una persona la quale va in giro e si guadagna da vivere suonando, deve prima di tutto sperare di poter divertire, emozionare il proprio pubblico e, allo stesso tempo, divertirsi ed emozionarsi lui stesso. Ecco perché sono sempre a caccia di cose nuove da eseguire che stimolino la mia curiosità. Le mie proposte devono poi, ovviamente, fare i conti con i direttori aristici; non si può fare un programma di un'ora e mezza con musiche del tutto sconosciute, la gente non lo accetterebbe. È giusto quindi porgere i grandissimi come Beethoven, Liszt o Chopin, ma una piccola parte di repertorio nuovo aggiunge un pizzico di spezie che rende il menu più appetitoso. Nell'ambito italiano mi affascina soprattutto il Novecento storico; conobbi la musica di Malipiero quando avevo sedici anni, me ne innamorai immediatamente constatando che a quei tempi non la faceva nessuno, stesso discorso per Casella. Sussiste quindi anche un'opportunità educativa, il desiderio di far conoscere questa musica che a me piaceva tanto. Ora i tempi per fortuna sono cambiati. Il mio primo disco con musica di Malipiero è uscito nel 1995 (Gian Francesco Malipiero - Piano Music - Etichetta ASV), quando sul mercato discografico di lui non c'era praticamente nulla, mentre ora esistono registrazioni integrali della sua musica pianistica. Si può discutere anche della produzione di Alfredo Casella, che è pure interessante. È stata una bella avventura; ritengo sbagliato non aver fatto ascoltare in precedenza questi autori e non ho mai capito perché questo fosse successo. Parliamo di compositori di grande rilievo. Non ci dimentichiamo che Luigi Dallapiccola disse che Malipiero era il più grande compositore italiano dopo Verdi.

 




ADP: Le sue doti virtuosistiche traspaiono con chiarezza nell'esecuzione della lisztiana Totentanz, fatta a Monaco di Baviera e definita dalla Süddeutsche Zeitung "Un'esecuzione meravigliosamente tremenda". Cosa significa per lei essere un pianista virtuoso?


SIB: Nulla, è una fase incidentale. Lei parlava prima del mio repertorio, che risulta piuttosto vasto; questo è vero poiché negli anni ho sviluppato non so se una preferenza, ma certamente un'affinità, con un repertorio parecchio complesso. Sono "malato" di contrappunto, preferisco le fughe agli studi, così in questo macinare tante note, con gli anni e con la pratica, ho acquisito evidentemente una certa abilità nel suonare. Tutto lì. Guardi, credo che la virtuosità giaccia più nella qualità e nella varietà del suono che non nei funambolismi. È chiaro che se uno va a suonare gli Studi trascendentali di Liszt, impegnandosi in questo tipo di repertorio, lo fa con l'intento di sbalordire l'ascoltatore. Gli Studi lisztiani esistono per questo, anche se non manca sicuramente in essi una vena poetica, sono brani scritti per impressionare, a differenza, per rimanere nell'ambito di questo compositore, delle due Leggende di San Francesco D'Assisi e di San Francesco di Paola, per esempio. Lui ha scritto tantissima musica poetica. Proprio ieri sera mi ha emozionato in concerto la Parafrasi Dall'Aida, Danza sacra e duetto finale; io di Parafrasi di Liszt ne eseguo diverse, ma questa secondo me è di gran lunga la più bella, proprio perché non ha nessuna intenzione di stupefare con acrobazie tecniche, anche se tutto è fuorché semplice da suonare. Tuttavia, le difficoltà che presenta sono subordinate alla bellezza assoluta della musica. Per farla breve, forse in questa occorre più virtuosismo che non nella Parafrasi del Don Giovanni o del Rigoletto. Poi oggi ci sono così tanti pianisti che non ha più senso misurarsi sul piano della velocità o del volume sonoro.


ADP: Ascoltandola in J.S. Bach, così come in altri autori, emerge una cura certosina per la partitura, lucidità del fraseggio, rigore e insieme la volontà di dire qualcosa di originale. È forse questa la qualità che più mi ha colpito del suo pianismo: il massimo rispetto per l'autore e, insieme, l'affermazione della sua peculiare visione. Un'alchimia difficile, che solo pochi artisti giungono a realizzare. A questo punto le chiedo: sono io a peccare di fantasia oppure c'è un qualcosa di vero nella mia affermazione?


SIB: Innanzitutto la ringrazio per le bellissime parole, non so quanto meritate, le do inoltre dieci e lode per quanto riguarda la precisione dei termini. È assolutamente giusto che il testo vada rispettato, bene o male noi esecutori, noi suonatori di musica, siamo un po' parassiti, vale a dire viviamo di luce riflessa del compositore. È perciò opportuno tenere in sacrosanto rilievo quello che hanno scritto i grandi maestri, ma purtroppo ho l'impressione che, a partire dalla metà del secolo scorso, quest'ossessione del testo sia diventata un po' la scusa per obliterare la personalità dell'interprete. La musica non è una cosa definita, ma appare alquanto aleatoria, è la più bella delle arti proprio perché non necessita di traduzione, ma assolutamente d'interpretazione. Le faccio un esempio: i due libri del Clavicembalo ben temperato di J.S. Bach constano di 48 Preludi e Fughe, composti in tutte le tonalità, ebbene in essi non esiste nemmeno un segno di dinamica, non c'è né piano né forte, nulla. Però questo non vuol mica dire che questa musica vada suonata in maniera incolore, sarebbe un crimine. Allora si diventa dattilografi, non pianisti. Lo stesso discorso si applica a composizioni più recenti, come nelle ultime Sonate di Beethoven, che sono invece ricchissime di indicazioni. Bisogna tenerne conto ma non sono insomma il Verbo divino. Se si trova una formula che a noi pare più espressiva, più diretta nel suo significare la musica, pur rispettando quello che hanno scritto i compositori, secondo me è più che lecito metterla in campo, senza fare grandi proclami. Come diceva Scarlatti, l'unica legge che conta davvero è quella dell'orecchio. Quando si ha l'arroganza di suonare di fronte a un pubblico, bisogna fargli sentire ciò che ci piace, non ha senso eseguire composizioni che non ci convincono e non gradiamo.


ADP: C'è un termine inglese, "humbling", da lei citato in un suo recente scritto, che credo rappresenti molto bene la sua personalità di artista. Si tratta di un vocabolo che, in buona sostanza, descrive la sensazione di umiltà che si prova di fronte alle cose superiori. Uno stato d'animo che nel suo caso penso l'abbia condotto a un'insopprimibile voglia di esplorarle in lungo e in largo.


SIB: È un sentimento che credo faccia parte del nostro mestiere. Io non mi considero un artista ma un artigiano della musica, gli artisti erano altri, ed è proprio perché mi ritengo tale che devo assolutamente prendermi cura di levigare il legno che lavoro con estrema attenzione. Non si finisce mai di limare perché la musica non è un qulcosa di definito, d'identificabile ci sono solo le note. Beethoven scrive una sonata e quelle sono precisamente le note da fare, ma ci sono milioni di modi per eseguirle, si potrebbe anche dire che sono tutti giusti e tutti sbagliati, nessuno ha la verità in sé. È la ricerca di quest'autenticità che rende il lavoro dell'interprete, specialmente quello moderno, dove ci sono possibilità di confronto sui Social Media e su Internet si può ascoltare quasi tutto, particolarmente prezioso. È necessario trovare la propria via in un campo che è sempre più un labirinto, se non si ha qualcosa da dire conviene cambiare programma. Bisogna poter comunicare al pubblico un'idea che sia convincente e perché realmente questa lo sia dobbiamo noi per primi esserne convinti. A volte risulta facile con i pezzi famosissimi, come per esempio il Concerto "Imperatore" di Beethoven, il quale non è che si possa interpretare in cento modi differenti, la musica è quella e la lettura dev'essere quella. È vero, c'è la spada di Damocle che prima di te sono passati tutti i più grandi pianisti della storia, per cui in questo capolavoro è molto difficile dire qualcosa di nuovo, però bisogna provarci, quanto meno renderlo convincente e questo in fondo vale per tutte le composizioni. Esercitare l'"humbling", avvicinandosi a Scarlatti, Bach, Beethoven, Liszt è quasi obbligatorio, su questo c'è poco da dire. Hanno scritto delle pagine immortali, noi davanti a loro non siamo proprio niente.


ADP: Premesso che lei è sicuramente una delle più interessanti personalità del panorama concertistico mondiale, una cosa in particolare m'incuriosisce. Noto che è molto stimato dalla stampa tedesca, che lo acclama come "Uno dei più importanti musicisti usciti dall'Italia negli ultimi trent'anni". Come giustifica il grande apprezzamento che ha per lei la Germania, forse superiore a quello di altri Paesi?


SIB: Mah, queste sono le tipiche iperboli scritte dai giornalisti, che ovviamente fanno piacere ma lasciano il tempo che trovano. Certo, nessuno sarebbe contento di leggere una recensione negativa di un suo concerto ma, insomma, non si tratta mica di verità assolute. Della Germania le posso dire che probabilmente è un amore reciproco. Ho iniziato a suonare in quel Paese se non ricordo male nel 1993, mi esibii in un concerto a Francoforte nel quale mi divertii tantissimo, tutto andò per il meglio. Vado sempre molto volentieri a lavorare in Germania, lì trovo orchestre che suonano decisamente bene anche nei posti più tranquilli. I tedeschi prendono la musica classica molto seriamente e quindi è un amore ricambiato. Per mia fortuna a loro piace il modo in cui suono e di buona sorte bisogna anche averne in questo mestiere.


ADP: Mi consenta un'ultima domanda maestro, riguardante le sue molteplici esperienze itineranti. In un articolo ha affermato: "La nostra vita è così: si va a lavorare lontano, si conoscono nuove persone con le quali si dividono momenti di tensione (prima degli spettacoli) ma anche di relax (il "dopo", se tutto è andato bene), si intrecciano nuovi rapporti; nascono amicizie." Oltre al suo maestro Shura Cherkassky, c'è stata qualche altra personalità artistica con la quale si è sentito in particolare sintonia?


SIB: Indubbiamente si, sono tanti i musicisti con cui si è creata una sintonia, forse anche troppi da menzionare. In Germania ho lavorato tanto con un eccellente direttore d'orchestra che si chiama Peter Stangel, di cui sono diventato amico, e, sempre lì, con un altro direttore, questo italiano, Michele Carulli. A livello pianistico sono molto amico di Francesco Saverio Caramiello. Poi c'è il maestro Vincenzo Maxia, anche con lui sono avvenuti dei bellissimi scambi di pensiero. Sono davvero tanti e da ognuno di loro ho imparato qualcosa. Le ho citato il nome di ottimi musicisti, ma ovviamente si può imparare pure da chi sulla carta ha poco da offrire, basta tenere le orecchie e gli occhi aperti. Cherkassky mi diceva che spesso e volentieri andava a sentire altri pianisti per ricordarsi di cosa non si doveva fare.


ADP: Era una persona molto arguta.


SIB: Si, lo era assolutamente. Penso che una bella esecuzione, sul pianoforte come su qualsiasi strumento, sia fatta da tanti piccoli mattoni che poi nell'insieme creano un palazzo. Mattoni che non risultano tutti uguali, alcuni sono belli e altri meno, ma l'importante è il risultato finale, che l'edificio regga e soprattutto che comunichi un'emozione. Francesco Malipiero nelle sue memorie di gioventù scrisse una frase molto bella: "Senza l'emozione, non c'è niente" e io ci ho sempre creduto.

 



Alfredo Di Pietro

Settembre 2022


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