LA NOBILE ARTE DELL'AUTOCOSTRUZIONE
PIERLUIGI MARZULLO
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Come le precedenti, anche questa quinta edizione della Rassegna Hi-Fi Auto-costruita Audiocostruttori nasce all'insegna del confronto, dove dei volenterosi appassionati si mettono in competizione presentando le loro creazioni e scambiandosi le esperienze accumulate nel tempo. Protagonista di questa prima conferenza è l'ingegner Pierluigi Marzullo, noto redattore della rivista Costruire HiFi e autore di tanti progetti messi a disposizione degli autocostruttori. Questa rivista nasce con il preciso compito di studiare, progettare, modificare, realizzare da sé apparati e sistemi di riproduzione audio. Come tale ha progressivamente raccolto nelle sue pagine una miniera inesauribile di dati, regole, formule e suggerimenti pratici per i patiti dell'autocostruzione. Anche propedeutica per il neofita che vuole entrare nell'affascinante mondo delle valvole, semiconduttori e componentistica elettronica, di grande utilità pure per chi è già esperto di circuitazioni elettroniche audio, di sorgenti analogiche, digitali e di diffusori acustici. Va da sé che la manualità necessaria a costruirsi una qualsivoglia elettronica o diffusore dev'essere sostenuta a monte da un'adeguata preparazione teorica, ed è proprio questo il concetto cardine su cui s'incentra questa conferenza, intitolata "La nobile arte dell'autocostruzione".
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Nelle intenzioni degli organizzatori, il suo desiderio, nemmeno tanto velato, è di diffondere il fai da te di alta qualità anche ai giovani, in vista di un ricambio generazionale in tale ambito. Vale la pena sottolineare come da più di vent'anni la rivista Costruire HiFi è l'unica italiana per autocostruzione ancora in vita. Gli articoli di Pierluigi Marzullo sono esorditi proponendo progetti semplici, ma in tempi più recenti si sono indirizzati verso nuovi lavori, pur essendo i primi ancora attuali. I progetti snelli si possono migliorare, a prezzo però di un aumento della complessità circuitale. In seguito Marzullo si è dedicato maggiormente alla divulgazione, ha creato anche una sezione della rivista chiamata "L'angolo dell'ingegnere" dove vengono affrontate svariate tematiche. Un percorso ormai lungo il suo, partito spiegando come funzionano gli amplificatori e ultimamente rivolto alle valvole, per lui una novità poiché aveva cominciato la sua attività con i transistor. Solo qualche diecina d'anni dopo dunque ha preso contatto con i tubi termoionici, giusto per curiosità, con la volontà di approfondire e allargare le sue conoscenze, portando i risultati di questa sua evoluzione anche a conoscenza dei lettori di CHF.
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Questo è stato in buona sostanza lo spirito che lo ha mosso. Forte di tali conoscenze ed esperienza, il giorno 17/05 è stato qui tra noi per parlare dei fondamenti dell'autocostruzione. Innanzitutto gli ha fatto piacere vedere come nella platea ci fosse qualche giovane, mentre la maggior parte degli autocostruttori ha una certa età, come d'altronde lui stesso. Ha quindi formulato l'auspicio che questa nobile arte susciti l'interesse anche dei più giovani. Un'attività piuttosto impegnativa che richiede conoscenze tecniche ma soprattutto notevole esperienza perché, dice Marzullo, "Certe cose sui libri non le troverete mai". I giovani vanno allora supportati, guidati, funzione che viene espletata con buoni risultati proprio dalla rivista CHF con il suo Forum di discussione, il quale ad agosto di quest'anno compirà vent'anni. Su questo si può trovare davvero tanto materiale interessante, come nella rivista stessa, che può essere considerata una specie di enciclopedia dell'autocostruzione, ha pieno titolo a esserlo perché tra le sue pagine è possibile trovare un'abbondante documentazione, progetti, spiegazioni e cose che non si trovano da nessun'altra parte. Tanti appassionati posseggono addirittura tutti i numeri della rivista, quelli da 1 a 60 sono digitalizzati e si possono acquistare su CD ROM. Pierluigi Marzullo inizia il suo discorso con delle informazioni utili per i principianti.
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L'autocostruzione si può fare in due modi, il primo consiste nel comprare un kit di montaggio, sistema molto usato per le casse acustiche, dove vengono forniti gli altoparlanti da montare poi in un mobile, che dovrà essere costruito dall'utente, e il filtro crossover. Tale tipologia di autocostruzione è la più semplice da realizzare, quindi molto praticata dagli appassionati, e dà molta soddisfazione. La parte più complessa è certamente quella relativa all'elettronica. I moduli di amplificazione e preamplificazione si possono acquistare già fatti, partendo da sistemi esclusivamente analogici. Un tale tipo di apparato ha bisogno a monte di trasduttori analogici che recepiscano il suono e lo trasformino in impulsi elettrici, in modo tale che possano essere registrati tramite degli appositi dispositivi. Per la riproduzione si segue un ciclo inverso. L'odierna conferenza si è occupata principalmente della parte inerente all'amplificazione, che si realizza generalmente su due livelli, un primo di preamplificazione e l'altro di amplificazione finale. I due passaggi sono giustificati dal fatto che devono essere trattati segnali di livello molto piccolo (piccolissimo nel caso delle testine), non certamente in grado di pilotare direttamente un diffusore.
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I primi amplificatori erano chiaramente a valvole perché non esistevano altri dispositivi, nati non tanto per il nostro diletto ma principalmente per la telefonia. Quando fu inventato il telefono il problema da affrontare era la trasmissione del segnale su una lunga distanza e la relativa energia necessaria per il trasporto, da cui la necessità di amplificare tali segnali. Naque così la banda dedicata alla voce, detta telefonica, molto più ristretta rispetto a quella udibile dall'orecchio umano, indispensabile per riuscire a comprendere le parole. Non occorreva quindi raggiungere un'estensione da 20 Hz a 20.000 Hz, che è la gamma udibile di un soggetto giovane, ma per una buona intellegibilità della parola bastava l'intervallo da 200 Hz a 3000 Hz. Ecco perché si trattava di amplificatori dalla banda molto limitata. L'alta fedeltà è nata più avanti, iniziando a stabilire dei riferimenti tecnici, all'inizio riguardanti l'amplificazione in grandi teatri e nei cinema. In quest'ambito operarono case americane come ElectroVoice, Altec, JBL e altre che produssero dei grandi diffusori, atti a sonorizzare ambienti molto ampi. A partire dagli anni '50 cominciò a nascere l'alta fedeltà domestica, periodo in cui William Shockley creò con il suo gruppo di ricerca il primo prototipo funzionante di transistor.
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Naquero così i primi amplificatori dotati di questo dispositivo, a monte del quale ci doveva essere una sorgente, cioè un alimentatore collegato alla rete elettrica che forniva l'energia necessaria per il funzionamento. E qui sorse un primo problema, essendo la corrente che scorre nella rete elettrica di tipo alternato. Nei primi esperimenti di fine 800, quando si facevano la guerra grandi aziende come la General Electric e altre per avere la supremazia sulle forniture elettriche, questa era fornita come corrente continua, mentre i generatori, tipo le batterie, presentavano una polarità positiva e una negativa. Nel corso della relazione non è stata certo trascurata la citazione della fondamentale legge di Ohm, la quale stabilisce la relazione tra tensione, corrente e resistenza in un circuito elettrico. Tutto da parte da questa, cioè dall'affermazione che l'intensità di corrente in un conduttore è direttamente proporzionale alla tensione applicata ai suoi capi e inversamente proporzionale alla resistenza del conduttore stesso. La delucidazione è stata corredata dalla visione di diverse diapositive e si è estesa anche alla spiegazione dei componenti passivi presenti in ogni circuito.
Non vanno ovviamente dimenticate le formule relative alla potenza elettrica e l'uso del cosiddetto tester, indispensabile per quelle misurazioni che devono essere fatte nel corso della messa in opera di un circuito. Questa conferenza si è rivelata molto interessante, l'excursus divulgativo di Pierluigi Marzullo è stato mosso dalla volontà di fornire le cognizioni di base dalle quali si deve necessariamente partire, prodrome di una consapevolezza teorica che dev'essere alla base di ogni autocostruttore. Questo in buona sostanza mi è sembrato il vero valore della sua dissertazione.
CONFERENZA/INTERVISTA TRA GIANNI VECCHIETTI E LUCIANO CALVANI
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È una lunga e gloriosa storia quella di Gianni Vecchietti, progettista elettronico noto per essere stato un precursore nel campo dell'alta fedeltà autocostruita, essendo la sua attività esordita all'inizio degli anni '60. Nel corso del tempo ha commercializzato kit di preamplificatori, amplificatori, alimentatori e altri componenti necessari per la realizzazione d'impianti HiFi autocostruiti. La sua ditta nasce di preciso nel 1964 come laboratorio di riparazione TV, poi nominata GVH Elettronica. A seguito di una commessa di piccoli amplificatori per giradischi portatili, sviluppò una serie di moduli amplificativi con potenze da 10 a 50 watt, piuttosto alte per gli anni '60. Questi contenevano tutti gli elementi elettronici necessari, per cui era sufficiente cablare le parti per ottenere amplificatori finiti e funzionanti. Con la riduzione dei costi dei transistor al silicio, i Watt disponibili aumentarono progressivamente a 80, 100, 250 e 400, si trattava all'epoca di potenze erogabili solo da amplificatori professionali e costosi. L'operazione era certamente vantaggiosa per l'utente perchè fornendo solo il "cuore" dell'elettronica si riducevano i costi del 80%, in un amplificatore che era tranquillamente in grado di competere con modelli più costosi pur mantenendo un prezzo d'acquisto maggiormente accessibile.
I moduli venivano utilizzati pure come ricambi in altri apparati: juke box, amplificatori PA, sonorizzazioni in discoteche e grandi spazi. Erano numeri importanti, negli anni '70 furono costruiti circa 30.000 moduli, suddivisi in vari modelli. I più venduti erano il MARK 100B (100 Watt) e il MARK 300 (250 Watt), con una disponibilità di modelli, considerando anche i prodotti finiti, di circa venticinque. La produzione dei moduli terminò nel 1999, con l'avvento di oggetti simili prodotti in Cina. La GVH ha poi continuato la sua attività sotto il nome di Bottega Elettronica. Quella che si è svolta il 17/05 a San Vincenzo è stata una conferenza/intervista tra il progettista emiliano e Luciano Calvani, onorato membro del Nuvistorclub. Ed è proprio quest'ultimo a dare l'avvio ricordando i suoi esordi nell'autocostruzione, avvenuti proprio nel periodo iniziale dell'attività di Vecchietti, con i primi esperimenti in cui non mancavano transistor e resistori bruciati, prima di riuscire a far funzionare qualcosa. Vecchietti scriveva su CQ Elettronica, una delle riviste che allora andavano per la maggiore, regolarmente acquistata Luciano, in cui facevano bella mostra questi ambitissimi kit. Era il periodo in cui pubblicava anche Nuova Elettronica, rivista italiana fondata dal compianto Giuseppe Montuschi nel 1969 a Bologna, sorta dalle ceneri di Elettronica Mese.
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Si occupava di hobbistica elettronica nonché divulgazione nell'ambito tecnico scientifico, elettromedicale e didattico, con un'impostazione pedagogica e popolare. Montuschi è stato un altro grande precursore del kit di montaggio. La citata rivista CQ veniva pubblicata mensilmente, mentre Nuova Elettronica non seguiva una regolare periodicità (in genere era bimestrale). Le GVH erano amplificazioni in grado di sviluppare potenze considerevoli, ben superiori ai prodotti dell'epoca, dove i 50 Watt e oltre erano raggiunti da nomi come Phase Linear o Mattes. Sono rimasti nella memoria dei "botti" clamorosi perché il tipografo del Montuschi sbagliava sempre la stampa dei valori di resistori e condensatori. Quando mesi dopo veniva pubblicata l'"errata corrige", il danno ormai era fatto. Così gli autocostruttori dei tempi compravano la rivista e con grande volenterosità si mettevano a lavorare sui circuiti, aspettando però prudenzialmente l'uscita del numero successivo onde non incorrere nei citati "inconvenienti". In realtà i circuiti stampati erano corretti, quello che non andava era il valore dei vari componenti. Con GVH le cose per fortuna andavano diversamente. L'azienda forniva il kit e, se l'autocostruttore non era proprio negato, tutto filava liscio.
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La vicenda professionale di Gianni Vecchietti è quella di un "ragazzo" classe 1938, che ho avuto l'onore e il piacere di conoscere proprio alla rassegna toscana. La sua attività in GVH poi in Bottega Elettronica si è ufficialmente conclusa nel 1999, ma prosegue ancora oggi nonostante la veneranda età di 87 anni. Abbiamo nel nostro Paese dei maestri che ci hanno insegnato, senza clamori da social, l'arte dell'autocostruzione, questa è la bellezza della storia dell'HiFi italiana. Luciano Calvani ha tratto da loro degli insegnamenti che lo hanno anche motivato a spingere il Nuvistorclub, di cui fa parte, a invitare due conferenzieri di questo livello, che onorano e arricchiscono la rassegna. Un'altra molla propulsiva è il tentativo di stimolare le nuove leve, magari non i giovani di primo pelo, ad avvicinarsi all'alta fedeltà fai da te, memori che una volta capitava di doversi montare da soli gli apparecchi, anche in considerazione degli elevati costi dei prodotti finiti. Il periodo d'oro del fai da te conobbe il suo tramonto alla fine degli anni '80, in occasione dell'arrivo dei PC. "Negli anni '70-'80", racconta Luciano Calvani, "facendo un giro nel quartiere romano di San Giovanni, in un solo chilometro quadrato si trovavano undici negozi di componenti elettronici che avevano dal resistore fino al dissipatore. Oggi non c'è quasi più nessuno."
È dunque meritorio lo sforzo che oggi compie il Nuvistorclub, mirato a tramandare questa nobile arte e non lasciarla invece estinguere, anche perché dà grande soddisfazione a chi la pratica. Vecchietti si presenta alla conferenza portando con sé una sorta di "valigia dell'artista", una flightcase contenente degli oggetti da mostrare al pubblico. Si ritiene un uomo fortunato perché dotato di un'innata curiosità che lo spinge a chiedere delucidazioni sugli oggetti che vede in giro. È una dote che l'ha accompagnato durante tutto il corso della sua attività, unita a un interesse per la tecnica che già esisteva in lui. All'età di otto anni fece saltare l'impianto elettrico di casa poiché gli venne in mente di attaccare alla spina di rete una vecchia valvola rimediata dall'impianto luce. Suo padre si arrabbiò, ma i suoi l'hanno sempre lasciato libero al 100% di fare quello che desiderava, dicendogli ovviamente di non esagerare. Sulla sua predisposizione per le cose tecniche non lo hanno mai limitato in nulla. Suo padre era un letterato, un giornalista, e vedere un figlio che si occupava di cose totalmente differenti, che abbandonò pure la scuola, non fu per lui confortante. Talento precocissimo, a sei anni mise insieme il suo primo impianto, a tredici il primo ricetrasmettitore valvolare a super-reazione, cioè utilizzante un un circuito in cui il livello di reazione viene mantenuto al confine dell'oscillazione per aumentare la sensibilità alla ricezione di segnali radio.
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A un certo punto mostra agli astanti una valvola che lui considera un cimelio, detta "bicornuta" a causa dei due cappuccetti in testa, a modo appunto di due corna. Un tubo noto specialmente tra i radioamatori dell'immediato dopoguerra, capace di un campo di funzionamento che poteva raggiungere e superare i 300 MHz. Era stata così congegnata per ridurre la lunghezza dei terminali, poiché altrimenti in un circuito a molti MHz la bobina l'avrebbe mangiata la valvola stessa. Intorno ai sedici-diciassette anni decise di piantare la scuola per andare a lavorare in un posto dove facevano e riparavano televisori. Da lì, dai diciassette ai ventun'anni, si dedicò all'assistenza tecnica, fece il militare e ritornò a casa aprendo la sua ditta nel 1964, come scrivo nelle informazioni preliminari al suo avvincente racconto. Nel 1965 arrivò dalla Philips una commessa per fare una serie di amplificatorini da un solo Watt per delle valigette fonografiche che dovevano andare in Costa D'Avorio. Ne furono realizzati un buon numero e da quell'episodio gli venne l'idea di realizzare dei moduli amplificativi da mettere in vendita. Esordì quindi con l'AM 1 (1 Watt di potenza), contenente un gruppetto di quattro transistor al germanio messi all'interno di un modulo in kit dalle dimensioni decisamente piccole.
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Allora c'erano le monografie della Philips, dove si utilizzavano i loro componenti, in cui figurava un amplificatore di 8 Watt, poi anche un 25 Watt. Fu fatta della pubblicità, le vendite ebbero un buon impulso e si dette così l'abbrivio a una produzione di amplificatori nel campo della bassa frequenza. Ci viene mostrato anche l'AM 8 (8 Watt). I primi moduli, come il MARK 100, implementavano transistor al silicio, era un amplificatore venduto in chassis o in scatola di montaggio con potenza di picco pari 140 Watt (70 Watt efficaci) e impedenza d'uscita da 4 a 16 Ohm. Da 8 Hz a 40.000 Hz (± 1 dB) era la sua risposta in frequenza, mentre la distorsione a 40 Watt su carico di 8 Ohm era uguale o inferiore allo 0,45%. Impiegava 12 transistor, 4 diodi e 1 NTC. Si trattava originariamente di un 50 Watt perchè ancora non c'erano i complementari. Vecchietti in realtà iniziò con moduli HF (Alta Frequenza) essendo la sua prima passione quella per le amplificazioni a 144 MHz, per cui seguirono un paio di moduli con larghezza di banda da 2-3 MHz, rilasciati pure in versione finita. Poi c'era la parte a media frequenza, insomma lui si è molto divertito a fare queste cose perché ne traeva grande soddisfazione. Ma da radioamatore OM (Onde Medie), cui veniva naturale progettare e costruire questi primi kit, com'è arrivato alla bassa frequenza, o meglio all'alta fedeltà?
Grazie all'esperienza fatta in Philips oppure per un suo desiderio? Il progettista ci rivela che ciò è avvenuto in seguito al successo riscosso con i primi amplificatori, è stato questo che lo ha spinto a proseguire su quella strada. All'inizio venivano adoperati transistor al germanio (anche Luciano li utilizzava nelle sue realizzazioni), come gli AC 187 e AC 188, che morivano come le mosche se uno gli chiedeva qualcosa in più, poi soppiantati da quelli in silicio tipo i 2N3055, definiti transistor tuttofare, un modello che ancora oggi può dire la sua. L'ingresso del silicio nei semiconduttori facilitò di molto le cose anche all'autocostruttore, essendo questi più prestanti, e pure Vecchietti si dimostrò attento a quest'innovazione. Da questi primi modelli la GVH passò poi all'AM 25, il quale utilizzava tuttavia ancora un transistor di potenza al germanio, l'AD 149 TO3, il più potente dell'epoca. Nel 1976 nacque il preamplificatore stereo - equalizzatore RIAA PE7, dove tutto era già "on board", compresi i potenziometri, adatto a pilotare tutti gli amplificatori finali della serie MARK. Nelle specifiche c'era un ingresso magnetico RIAA (2,5 mV), uno per testine piezoelettriche da 25 mV e altri ausiliari (60 mV). L'uscita forniva 300 mV con impedenza di 10 kOhm e bilanciamento a metà corsa. Migliore di 65 dB era dichiarato il rapporto S/N e da 15 Hz a 50.000 Hz la banda passante.
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Non mancava il controllo del bilanciamento e dei toni bassi e alti. Sei BC148 erano i transistor a bordo della PCB, in silicio, all'epoca molto diffusi. Il telaio era proprietario. Ai tempi per l'autocostruttore c'erano due possibilità nella scelta dello chassis, Ganzerli o Teko, il primo aveva sede a Novate Milanese e il secondo a San Lazzaro Di Savena. I telai Ganzerli, in particolare, costavano un occhio della testa, erano fatti con finitura in vernice martellata, che ora è un po' ritornata in auge. Tornando a bomba al primo modulo di amplificazione finale costruito da Gianni Vecchietti, il MARK 100, c'è da dire che non era a configurazione complementare e adoperava transistor 2N3055. A quei tempi le potenze erano indicate in Watt efficaci, gli RMS, poi la concorrenza ha iniziato a infoltirsi, si battagliava al rialzo per accaparrarsi i clienti. Allora si è passati ai Watt musicali, che erano il 60-70% in più. La guerra delle potenze è andata avanti, sono venuti fuori i Watt di picco. Il MARK 100 risente di questo andazzo, un 50 Watt reale che era dichiarato per averne 100. Poi sono arrivati gli HF, i PMPO, acronimo di Peak Music Power Output (Potenza Musicale di Picco), cioè un valore teorico che indicava la potenza massima erogabile per brevi istanti durante i picchi.
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Era un valore spesso usato come richiamo pubblicitario, poiché tipicamente molto più alto di quello espresso in RMS (Root Mean Square), che indica invece il wattaggio effettivo e continuo che l'amplificatore può erogare. In questo modo elettroniche da 100 Watt reali erano date per averne 400. Il MARK 100 aveva come pilota un amplificatore operazionale, il mitico 748, che oggi non andrebbe bene nemmeno per una radiolina a causa dell'elevato tappeto di rumore che produceva. Ma all'epoca quello c'era. I primi MARK 100 (ne viene mostrato uno appartenente alla seconda serie) avevano un compensatore variabile che veniva tarato sotto controllo oscilloscopico perché l'amplificatore poteva o auto-oscillare o lavorare bene, pur essendo tagliato sugli acuti. Ecco l'esigenza di avere un compensatore, da 10 - 40 pF nella fattispecie, per rendere stabile e sicuro il funzionamento. Nel fai da te viene raccomandato di usare delle buone connessioni, dorate, platinate, mentre nel MARK 100 si vedono delle morsettiere da circuito stampato nonché un connettore Jack, sempre da PCB. La domanda di Luciano Calvani sorge allora spontanea: visto che parliamo di un finale di potenza, sempre che il cavo sia buono, non ossidato, con il mammut abbiamo una superficie di contatto all'incirca di 3 mmq, perché dunque non usare dei contatti saldati?
Per una ragione di semplicità, risponde Vecchietti, in quanto è più facile progettare un amplificatore in questo modo, per fare produzione, che non farne uno per hobbisti. Le problematiche che possono scaturire da un montaggio personalizzato, che conducono a una costruzione diversa per ogni appassionato, induce a delle variabili che possono influire sul buon funzionamento dell'elettronica. Cosa che non succede dettando una data tipologia di connessioni. Nel materiale portato dal progettista emiliano c'è tutto il necessario per costruirsi un piccolo impianto, con prezzi (dell'epoca) inclusi. Vediamo anche un MARK 60 dei primi anni '70, allora fornito in scatola di montaggio o in chassis, erogante 30 Watt efficaci. Apparve sulla rivista CQ Elettronica nel numero dell'8 agosto 1971, il solo modulo finale era venduto a 11.800 lire. Mettendo in conto tutti gli altri componenti necessari al prodotto finito e funzionante, veniva fuori un prezzo totale di oltre 50.000 lire, questo nei primi anni del 1970, quando la benzina costava 160 lire al litro. Volendo fare un confronto con gli odierni prezzi in euro dobbiamo dividere per mille e moltiplicare per cinque quella cifra. Questo è il contesto epocale in cui si muoveva il nostro progettista, che ha avuto il merito di mettere a disposizione degli autocostruttori dei kit che gli consentivano di allestire un buon impianto senza svenarsi.
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Oltre alla sua c'erano anche altre aziende che producevano scatole di montaggio, ma se parliamo di qualità quelle che spiccavano erano la GVH e i progetti di Nuova Elettronica. Dalla capiente valigetta a un certo punto viene estratto il MARK 200, presentato su CQ Elettronica nel numero uno speciale del gennaio 1972. Con questo modello la GVH decise di entrare nel campo delle alte potenze. Era un amplificatore monofonico con potenza d'uscita di 100 Watt efficaci (140 massimi efficaci), con sensibilità per la massima potenza d'uscita di 0,2 ÷ 1 Volt effettivi e banda passante da 10 Hz a 25.000 Hz entro ± 1 dB. Nacque prima dell'avvento dei complementari Motorola MJ e implementava i transistor 2N 3442, dispositivi ad alta tensione adeguati alla notevole potenza che si voleva ottenere. Era una macchina costosa (39.000 lire) in quanto aveva un doppio circuito stampato, i dissipatori erano cari, ma a quei tempi era tecnicamente avanti nella sua configurazione quasi complementare. Seguì il MARK 300, una "bestia" monofonica su circuito stampato fornita di morsettiere per tutti i collegamenti, con tensione di funzionamento CC 50 + 50 Volt, 3 Ampere in servizio continuo e 6 Ampere di picco. Arrivava ad erogare la notevole potenza di 200 Weff (RMS) su 4 Ohm.
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Secondo il progettista questo è stato il miglior modello prodotto insieme al MARK 100. "Una gran macchina", dice, "che mi ha dato notevoli soddisfazioni!" Diversi utenti avevano modificato il MARK 100 per ottenere una maggior potenza d'uscita, ma alla fine tiravano tanto la corda che questa si spezzava. Lo stesso avveniva per il MARK 300, in cui alcuni avevano tirato fuori il 30% di potenza in più. Con l'Hercules GP400 (che viene mostrato al pubblico) arriviamo agli anni '80, un amplificatore monofonico di bassa frequenza che erogava la bellezza di 400 Watt RMS su carico di 4 Ohm, pensato per la sonorizzazione di grandi locali, luoghi pubblici, chiese o discoteche. Una macchina complessa, dotata di ventola a causa del notevole calore generato durante il funzionamento. Solo qualche produttore di scuola americana poteva forse rivaleggiare in potenza con questo Hercules, mentre in Italia avevamo già due "Dan D'Agostino": Gianni Vecchietti e Bartolomeo Aloia, con le realizzazioni del primo che erano tuttavia più a misura d'uomo come maneggevolezza. "Il guaio era", racconta il progettista, "che ancora non esistevano gli MJ15003, MJ15023 e MJ15024, delle "bestie" in grado di gestire un alto numero di Ampere.
A quei tempi avevamo invece i 2N5631 e i 2N6031, che erano dei "fighetti" di transistor, con un'alta tensione ma poca corrente, intorno ai 15 Ampere, che diventavano 2 se si decideva di farli funzionare nei limiti della SOA. Avvenne poi che l'uscita della Sinclair con una serie di amplificatori lo preoccupò non poco circa la sopravvivenza della sua azienda. Loro avevano preso dei transistor da 6 Ampere e li facevano lavorare a quell'intensità di corrente, mentre Gianni Vecchietti era animato da una filosofia diversa, che ha sempre seguito e seguirà anche per il futuro, quella di far operare i transistor all'interno della SOA (Safe Operating Area). Questa definisce le condizioni di tensione e corrente entro le quali il dispositivo può operare senza danneggiarsi, quella che in buona sostanza determina la durata consentendo al transistor di lavorare pressoché indefinitamente. Riguardo alle idee allora in circolazione, la Galactron, per esempio, prendeva l'Application Note della Motorola, la elaborava un po' e produceva i noti amplificatori che molti appassionati conoscono, come l'MK10B, MK16, MK160 e il favoloso MK120. Discorso analogo si può fare con la Naim Audio, la nota società inglese fondata nel 1973 da Julian Vereker e Shirley Clarke.
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Citando l'articolo a firma di Luciano Calvani, pubblicato sul sito del Nuvistorclub: "Nell'ultima intervista della sua vita, concessa a Paul Messenger, Vereker raccontò che per il suo banco di registrazione e mixaggio usava un amplificatore Sinclair (presumibilmente lo Z30) da lui autocostruito in kit, che addirittura gli sembrò superiore a uno dei più quotati dell'epoca, il Quad 303. Non ci è dato sapere con certezza se l'amplificatore del geniale Clive Sinclair, per l'epoca rivoluzionario, abbia influenzato Julian Vereker nella progettazione dei primi amplificatori NAIM". Il sospetto comunque rimane. Queste interessanti riflessioni hanno dato il destro a Luciano per una domanda da rivolgere al nostro progettista, cioè se lui per le sue creazioni si fosse ispirato a un progetto preesistente che lo avesse particolarmente colpito. All'inizio anche lui aderiva alle Application Note, ma nel suo ultimo progetto, quello con i MOSFET, trovò uno schema della Toshiba lavorandoci sopra. Il progetto con l'integrato operazionale 748 è invece frutto del suo ingegno e di quello del suo tecnico di fiducia, che realizzava tutti i prototipi. Nei vari passi da fare, una volta assolto il compito di amplificare a basso livello, c'è poi la necessità di affrontare quella ad alto livello, passando per dei dispositivi cosiddetti piloti che vanno alla fine a gestire i finali veri e propri.
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Nella sua lunga attività ha spesso visto delle circuitazioni di tipo Darlington, che tuttavia lo hanno sempre lasciato perplesso perchè quando partono in "valanga", in un tempo brevissimo si distruggono. Tutti i valori dei resistori di alimentazione e pilotaggio erano nei suoi amplificatori calcolati e testati affinché dessero l'eccitazione sufficiente per fornire la potenza indistorta e niente di più. Quindi se saltava qualcosa, il guasto non andava indietro e non andava avanti nel caso della parte di pilotaggio. Riguardo le creazioni in alta fedeltà, sono davvero pochi quelli che le hanno inventate di sana pianta e si chiamano Williamson, Walker, Bandaxall, Villchur e rarissimi altri. Va riconosciuto a Gianni Vecchietti il merito di aver modificato, migliorandole, determinate soluzioni circuitali preesistenti, rendendole pure più appetibili all'ascolto. Grande importanza assume la scelta e la combinazione dei vari componenti nell'economia di un progetto, assodata la correttezza dei valori, delle impedenze e altri particolari tecnici dai quali non si può prescindere per un valido funzionamento. Lo stesso dicasi per gli abbinamenti, come quello importante tra amplificatore e diffusore. Il progettista a un certo punto mostra uno dei diversi MARK 100 in cui venivano cambiati i transistor finali (i BD368 in quello presente).
Man mano che i nuovi transistor uscivano sul mercato, lui non mancava di provarli. Questi BD368, in particolare, erano degli NPN con una corrente massima di collettore pari a 25 Ampere, i quali avevano purtroppo il "vezzo" di auto-oscillare come dei cavalli impazziti. Nella sezione driver troviamo un integrato più evoluto, l'LM301. Ogni prova veniva naturalmente fatta sulla base di quello che si poteva trovare in giro. I primi MARK 100 utilizzavano i transistor 2N3055 (NPN) e MJ 4502 (PNP). Ed eccoci giunti all'avventura con i MOSFET, adoperati nel MOS 100, una versione del MARK 100 fatta con i MOSFET, apparecchio che attualmente Calvani sta montando. L'ultimo preso in considerazione in questa relazione è un esemplare di MOS 100, con un circuito di base della Toshiba, però nell'ultima versione, che è seguente a quella mostrata in diapositiva. Utilizzava i MOSFET a tecnologia laterale, una tipologia caratterizzata da una geometria di costruzione che permette alla corrente di fluire lateralmente attraverso un canale nel semiconduttore, invece che verticalmente come nei MOSFET più comuni. Offre dei vantaggi nella gestione della potenza, con un aumento delle prestazioni soprattutto negli amplificatori audio di alta qualità. Il MOSFET ha un'alta impedenza d'ingresso e, a differenza del transistor che lavora in corrente, questo opera in tensione.
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Occorre implementare la compensazione termica, poiché hanno problemi di breakdown secondario. Quelli utilizzati nel MOS 100 incuriosirono Gianni Vecchietti proprio a causa della loro tecnologia laterale, un interesse insorto dopo la lettura del libro di Bob Cordell. Questi non hanno bisogno della compensazione termica, né del resistore di "source", in quanto non presentano il problema del breakdown secondario, avendo per di più un miglior rendimento. I risultati ottenuti con il MOS 100, poi diventato MOS 150, hanno consentito di tirar fuori dall'amplificatore 150 Watt con una tensione di alimentazione di 110 Volt; la sua banda passante va da 6 Hz a 30.000 Hz. C'è stato bisogno di realizzare una cella di filtro all'ingresso altrimenti erano avvertibili tutti gli switching. La sua distorsione si attesta sullo 0,08%. Il progettista prende dalla sua valigia un amplificatore monofonico da 180 Watt su 8 Ohm con alimentatore switching, è un oggetto che fa eccezione alla regola della SOA, alla quale Vecchietti è sempre stato ligio, perché durante le prove ha fornito la bellezza di 350 Watt senza saltare per aria. Ha utilizzato un alimentatore switching "a giorno", in quanto non aveva in quel momento altro a disposizione, peccato che questo sparava dentro un segnale che era un disastro, situazione infausta cui ha subito rimediato mettendo uno schermo.
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Dopodiché tutto è rientrato nei parametri della normalità. Un interesse quello per i MOSFET laterali cominciato alla fine dell'anno scorso, alla bella età di 86 anni. Luciano fa notare su una PCB la presenza sull'alimentazione di Fast-On saldati. Anche qui Vecchietti fornisce una precisa e convincente spiegazione: gli ultimi morsetti decenti che aveva trovato occupavano troppo spazio. Il Fast-On ha una valida caratteristica, quella di tenere molto bene la corrente e lo metti dove ti pare, nella posizione che ritieni più consona. Questo circuito sul quale ora sta lavorando (l'ultimo l'ha ordinato il giorno precedente la conferenza) è il risultato di sette diverse realizzazioni di circuiti stampati, li rifaceva perché ogni volta c'era qualcosina da modificare e migliorare. Questo circuitino è quello più stabile tra quelli provati ed è pure ragione di ottimizzazione dei MOSFET laterali che monta. Va su in frequenza che è una bellezza. Quando il lavoro su quest'ultimo è terminato, ha notato che nella misura di distorsione, partendo dallo 0,15% e andando su di livello, questa aumentava di mezzo punto. Temendo un falso contatto, lui ha rifatto le saldature e alla fine, a forza di trafficare, ha scoperto che in cima a una sinusoide, sotto certe condizioni appariva un disturbo indotto da una micro-oscillazione, che il lui stesso non sapeva a quale frequenza si verificasse, forse 70, 80 o 100 MHz, arrestata poi con un compensatorino da 20 pF.
Una soluzione a lui non molto gradita ma necessaria. Prima di concludere l'incontro gli viene posta un'ultima domanda riguardante i kit di montaggio cinesi, essendo quelli italiani praticamente scomparsi. Sono consigliabili per chi vuole iniziare ad autocostruire? "Quella è pappa già cotta, ma non puoi contrastarli", risponde senza giri di parole Gianni Vecchietti. Per onestà c'è da dire che i cinesi fanno prodotti discutibili ma anche delle cose egregie, iniziando a impegnarsi in ciò che i giapponesi già facevano da una vita, cioè copiare e migliorare. Non sono mancate le riflessioni "filosofiche", o se vogliamo di principio, in questa avvincente conferenza/intervista, rivelatasi non solo un "Amarcord" ma anche uno stimolo per inquadrare correttamente la nostra bellissima passione. Si è discusso pure sull'inclinazione all'abbondanza di Watt nelle amplificazioni, la quale non deriva soltanto dall'eventuale volontà di sviluppare grandi pressioni sonore (usa il termine colorito ma efficace di "far casino"), bensì di far fronte anche alle più spinte esigenze dinamiche che s'incontrano nelle registrazioni. È una cosa che tutti, autocostruttori e non, dovrebbero sempre tenere presente. Una visione sana dell'alta fedeltà, sicuramente in possesso del nostro progettista, è quella che mira a riprodurre come se fosse dal vivo un esecuzione musicale o di altra natura acustica.
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In questa desiderata interviene la registrazione, quindi i microfoni e la loro posizione, la riproduzione, la preamplificazione, l'amplificazione, le casse acustiche e l'ambiente, una catena insomma piuttosto lunga. Salta fuori anche la "vexata quaestio" del vintage analogico contro il moderno digitale. Una conta per alzata di mano su proposta di Luciano Calvani dimostra inequivocabilmente che la maggioranza dell'uditorio è a favore del secondo. Alla fine emergono non solo la bravura e l'esperienza di un autocostruttore navigato come Luciano Calvani, qui in veste d'intervistatore, ma anche la personalità di un grande dell'HiFi italiana, Gianni Vecchietti, il quale ha conquistato l'uditorio con la sua personalità schietta, lontana da certi clamori e distante da qualsiasi forma di roboante retorica.
Alfredo Di Pietro
Giugno 2025
SEGUE ALLA QUARTA PARTE