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giovedì 18 aprile 2024 ..:: F. Libetta a Città di Castello ::..   Login
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 Francesco Libetta a Città di Castello 12/09/2021 Riduci




54° Festival delle Nazioni - Omaggio alla Norvegia.
Eventi collaterali
Recital di Francesco Libetta



PROGRAMMA

Claude Debussy (1862 - 1918)

Estampes
- Pagodes. Modérément animé
- La soirée dans Grenade. Dans un rythme nonchalamment gracieux. Mouvement de Habanera
- Jardin sous la pluie. Toccate. Net et vif


Igor' Fëdorovič Stravinskij (1882 - 1971)

Trois mouvements de Petrouchka
- Danse russe
- Chez Pétrouchka
- La semaine grasse


Fryderyk Chopin (1810 - 1849)

- Waltz Op. 69 N. 1
- Étude Op. 25 N.1
- Étude Op. 25 N. 2
- Étude Op. 25 N. 6
- Étude Op. 25 N. 12
- Ballade Op. 23 N. 1


Isaac Albéniz (1860 - 1909)

Iberia
- Cahier 3: Lavapiés


Maurice Ravel (1875 - 1937)

La Valse

Bis:
Fryderyk Chopin: Waltz Op. 64 N. 2 - Waltz Op. 64 N. 1





BORGATO GRAND PRIX 333
UNA MERAVIGLIA ITALIANA



Non appena entrato in sala, la mia attenzione viene subito rapita dal Borgato Grand Prix 333, il maestoso pianoforte sul quale Francesco Libetta suonerà. Il maestro costruttore veneto Luigi Borgato è il suo papà e, come ogni buon genitore dovrebbe, coccola la sua creatura lucidandola con un panno. Questo gesto non è soltanto un atto d'amore ma ha un suo preciso perché: quando illuminata dai potenti spot presenti ai lati del Teatro, la finitura nero lucido rivela ogni minima impronta digitale e questo in una serata così importante non deve assolutamente succedere. Siamo davvero alla presenza di un assoluto fuoriclasse, una Formula 1 dei pianoforti, e come tale dev'essere guidata da un pilota di pari livello, un campione che la conosce nei minimi particolari e sa bene come trarre il massimo da lei. Ma cosa nasconde tra le pieghe questo eccezionale (nel vero senso della parola) strumento, presentato ufficialmente alla stampa nell'agosto 2017? Innanzitutto la complessità della struttura: per costruirne uno bisogna assemblare ben 15.000 pezzi, ma non meno il fatto che nasce per essere il più lungo Gran Coda da concerto in assoluto, misurando ben 333 centimetri, come indica il nome, mentre gli altri si fermano a 270, 280. Estremo è anche il peso di 745 kg, tale da impensierire un operatore di sala quando, a fine concerto, un capannello di curiosi si è avvicinato per ammirarlo meglio.



Non so quale carico possa sopportare il palcoscenico in legno del Teatro degli Illuminati, ma qualche patema d'animo deve averglielo provocato: al peso già notevolissimo del Grand Prix (pensiamo che un'utilitaria come la Peugeot 107 1.0 ha una massa di 800 kg) si aggiungeva quello delle persone circostanti. Uno strumento che il maestro Borgato ha costruito rigorosamente a mano (l'unico attualmente al mondo a farlo), selezionando con attenzione i materiali lignei, che sono il palissandro per il rivestimento interno, l'acero per i ponticelli, il faggio come cuscino della meccanica, il carpino per le leve, il rovere, l'ebano per i tasti neri. Sono presenti in tutto una decina di legni diversi e ognuno di loro contribuisce alla determinazione di una precisa sonorità, in primis l'abete armonico utilizzato, non un tipo qualsiasi tra quegli esistenti ma uno speciale, preso dai boschi di Passau e dal costo molto elevato. La sua caratteristica è l'estrema velocità di trasmissione del suono: superante addirittura i seimila metri al secondo, contro i tremila circa dei normali abeti. A questo punto non poteva essere normale nemmeno la dotazione di corde per ciascuna nota, ben quattro, e la loro lunghezza, aumentata di 50 centimetri per dare più profondità al suono. L'idea delle quattro corde non è di Borgato ma di Ludwig van Beethoven, visto che nel 1823 fece dotare i suoi fortepiano di una corda aggiuntiva per rendere più robusta l'emissione. Un lavoro tutt'altro che banale poiché la diversa lunghezza ha obbligato il progettista a ricalcolare tutte le tensioni. Andando con la memoria alle impressioni d'ascolto, il risultato è stato incredibile in termini di potenza e spessore armonico del suono, realmente eccezionali soprattutto nel range medio e basso, laddove il Grand Prix 333 credo non tema confronti.



Uno strumento, come si può vedere dalla targhetta sulla cordiera, dedicato a Bartolomeo Cristofori, inventore del pianoforte e padovano, proprio come l'artigiano che l'ha concepito. Torniamo a bomba all'argomento corde: sono in totale 287, la più grave lavora con una tensione di 240 kg, per arrivare alla più acuta che invece è tesa a 78 kg; impressionante la tensione complessiva, di ben 25 tonnellate. Con numeri di questo tipo, occorre utilizzare necessariamente un telaio in ghisa, quello che in buona sostanza distingue un pianoforte moderno da uno antico, questo è di provenienza tedesca poiché in Italia non ci sono fonderie in grado di produrlo. Un'altra idea beethoveniana è sfociata nell'aggiunta di due pedali, oltre ai tre normalmente presenti. È lo stesso Francesco Libetta e Luigi Borgato, da me interpellati, che mi chiariscono il loro effetto: "Riproducono un meccanismo adottato sui pianoforti usati da Beethoven. Nel Grand Prix questi dividono la funzione del pedale destro classico, che è quella di alzare tutti gli smorzatori, per sezioni: uno alza quelli di sinistra, l'altro quelli di destra. Anni fa, su suggerimento di Radu Lupu, Luigi Borgato li aggiunse per permettere alcuni rari effetti che Beethoven richiede (legato in una mano, staccato in un altra), per esempio nell'inizio della Sonata Op. 31 N. 1 e nel secondo tempo della Sonata Op. 28." La differenza di lunghezza di una cinquantina di centimetri rispetto a un "normale" Gran Coda non è un dato da valutare semplicisticamente, ma implica tutta una serie di accorgimenti tecnici da attuare.



Sono state quindi condotte ricerche ed esperimenti che hanno reso necessario uno studio di dieci anni, per uno strumento che richiede attualmente 1600 ore di lavoro per essere approntato. Sono numeri e particolari costruttivi che fanno la differenza quando da un pianoforte si esige un volume sonoro importante, con una conseguente amplissima dinamica, e tale da avvicinarsi a quella sviluppata da un'orchestra sinfonica. Il maestro Borgato ricorda il suo incontro con il grande Radu Lupu: "Ci vedemmo nel 1994 a Vicenza, lui suonava al Teatro Olimpico e noi chiedemmo se fosse possibile fargli provare un nostro strumento in una sede staccata. Lui arrivò, disponibile a testare questo pianoforte. Ci lavorò su un'oretta, poi mi chiese se poteva provarlo il giorno dopo, magari togliendo qualche grammo alla tastiera. Durante la notte rivedemmo i pesi riducendoli di un paio di grammi. La mattina dopo lui si chiuse nella stanza, non volle dentro nemmeno sua moglie e si mise a lavorare per un'ora circa. Uscì poi dicendomi se fosse stato possibile fare il concerto serale con quello strumento."




NARRAZIONE DI UN IMMAGINIFICO CONCERTO



Una cronistoria che si rispetti non può trascurare anche gli elementi geografici e ambientali: il 12/09/2021 a Città di Castello, Teatro degli Illuminati, nell'ambito del 54° Festival delle Nazioni "Omaggio alla Norvegia" Francesco Libetta ha tenuto un memorabile recital. Un evento definito, con un pizzico di sottostima, come collaterale al Festival poiché il termine significa: "Che è o sta a lato, di fianco", in una collocazione quindi non centrale. In realtà, se un valore ha avuto questo superbo concerto, questo va individuato senza se e senza ma nella sua eccezionalità, nel programma, nello strumento e nell'esecutore. Praticamente da sempre chi stila queste note è convinto della valenza mesmèrica di certi interpreti, cioè quella qualità che ipotizza la presenza di un "magnetismo vitale" in determinati individui eccezionalmente dotati e da questi usata a scopi terapeutici. Il termine potrà sembrare inopportuno, ma cos'è la musica se non un prezioso medicamento per la nostra anima? Non voglio fare retorica, anche se ammetto di avere una certa predisposizione in tal senso, ma semplicemente prendere atto che quando si ascoltano delle interpretazioni dalla non indifferente forza di persuasione sembra davvero di essere trasportati in una sorta di "realtà aumentata", capace di levare ogni annebbiante velo sulla percezione dei nostri momenti esistenziali, rivelarci quella realtà più profonda che si cela dietro il vivere quotidiano. Non è certamente escluso da quest'eventualità il pianista salentino, anzi la conferma in pieno. Il suo nome è largamente noto agli amanti del pianoforte, ma, per chi eventualmente non lo conoscesse, rubo qualche nota dal volantino di sala.



Francesco Libetta, classe 1968, è stato premiato a Oslo per le sue esecuzioni di musica di autori norvegesi come Grieg, Sinding, Cleve, in occasione del Queen Sonja Music Competition. C'è una felice dichiarazione che M. Gurewitsch ha esternato nei suoi confronti sul New York Times, ormai divenuta nota, che a mio parere ne compendia meglio di altre la figura, quella cioè di un: "Aristocratico poeta della tastiera con il profilo e il portamento di un principe rinascimentale". Ne esiste un'altra, giusto per citare un'autorevole voce nostrana, Piero Rattalino, che va più nel tecnico: "Non c'è oggi nessun giovane – e anche qui, lettore, non esagero -, italiano o americano o giapponese o ottentotto, che possegga in pari grado lo scatto, il colpo d'occhio, la rapidità di presa del tasto di Libetta". Non conosco pianisti ottentotti, ma gli credo sulla parola. D'Avalos gli ha dedicato tutti i suoi pezzi per pianoforte solo. Nel 2020 ha registrato l'integrale delle Sonate per pianoforte di L.v. Beethoven, in precedenza si è dedicato all'integrale delle composizioni per tastiera di G.F. Händel, poi Chopin, i tecnicamente temibilissimi 53 Studi sugli Studi di Chopin di Leopold Godowski, Paisiello, i lisztiani Études d'exécution transcendante e Années de pèlerinage. Senza contare i prestigiosi riconoscimenti che alcune sue registrazioni hanno ricevuto dal Diapason d'Or, Choc de le Monde de la Musique e Raccomandé par Classique. Compositore, direttore d'orchestra, saggista, autore del libro "Musicista in pochi decenni", rivelatore e nel contempo di godibile lettura. Appassionatissimo di arte coreutica. Ha collaborato con famosi direttori d'orchestra, violinisti, danzatori, coreografi e compagnie di balletto, cantanti e numerosi colleghi pianisti.



È stato membro in giurie di concorsi internazionali, docente per la Miami Piano Festival Academy, per l'AIMA di Roma, per la Musical Arts di Madrid. Inesauribili la sua curiosità e prensilità intellettuale, per questo definito da M. Chiodetti sul mensile Musica: "Uomo di cultura enciclopedica, che dispensa senza sforzo alcuno, ma anzi con sommo divertimento suo e di chi legge." Ho l'onore e il piacere di conoscere il maestro Libetta da qualche anno, anche personalmente, e vorrei chiudere questa parziale descrizione del suo curriculum con una nota umana, avendolo riconosciuto come persona amabile, disponibile al dialogo e a una sana divulgazione, incute grande rispetto a chi gli sta di fronte, ma in modo del tutto naturale, senza atteggiamenti che possano provocare una qualche forma di autoritaria imposizione. E la differenza tra il suscitare e l'imporre è molto importante. La magia del simbolismo debussyano introduce dolcemente a un programma che si preannuncia piuttosto complesso, diventa un modo per prendere confidenza con il mirabolante Borgato Grand Prix 333 e i suoi timbri. "Délicatemente et presque sans nuances" si legge nella partitura di Pagodes. In quel "quasi senza sfumature" riconosciamo il portamento iniziale uniforme, quasi sornione, del pianista salentino, una sorta di bigliettino da visita della sua abilità coloristica nell'evocare le sensazioni orientaleggianti delle pagode. Particolarmente luminescente appare l'episodio "dans une sonorité plus claire", gli accordi alla mano sinistra, grazie a un uso sapiente del pedale, spiccano per la loro incisiva percussività.



I suoni arrivano magnificamente cesellati e distinguibili alle orecchie dell'ascoltatore, anche le rapide figurazioni che si affacciano alla battuta 78 testimoniano del magnifico "jeux perlèe" che Libetta riesce a ottenere, pur nel rispetto di sonorità al limite dell'evanescente. Una velocità che contrasta con la ieratica profondità del canto alla mano sinistra. Le suggestioni continuano ancora più intense con il secondo brano di Estampes, La soirée dans Grenade. Dans un rythme nonchalamment gracieux. Mouvement de Habanera, il quale trae ispirazione dal movimento misterioso e ondeggiante di un'Habanera, lento ma assolutamente non rigido, che il pianista dipana deliziosamente in un susseguirsi di ritenuti, tempi giusti e rubati. La gestione del ritmo è qui compito molto delicato, ogni più piccolo errore di calibrazione sono convinto che porterebbe a un'irrimediabile smarrimento della magia che intride questi tre brani di Estampes. La calda atmosfera della sera nelle vie di Granada ha degli evidenti collegamenti con le suggestioni albeniziane di Iberia nonché dell'Habanera di Maurice Ravel. Si arriva così al "Très rythmé - mf en augmentant beaucoup" di battuta 38, forte e incisivo. Le melodie sembrano provenire da un lontano orizzonte in "Léger et lointain" e la chiusa, tra sospiri e sussulti, conduce a un "En allant se perdant". E proprio sul finale s'intrufola la classica suoneria di un telefonino, per fortuna di breve durata, della quale il pubblico non sentiva certo la mancanza. Altri segnali di messaggistica da Smartphone, tipo gocce di acqua che cadono, versi di uccellini e quant'altro, hanno dato il loro contributo sonoro nel corso del concerto.



Jardin sous la pluie. Toccate. Net et vif è un pezzo di grande impegno virtuosistico, che il nostro pianista affronta in scioltezza. Su delle veloci quartine di semicrome prendono forma delle melodie tratte da motivi popolari, come il tema principale, che è la citazione della canzone per bambini "Dodo, l'enfant do". Va da sé che la pioggia battente è rappresentata proprio da quelle quartine, dalla battuta 64 soppiantate da terzine. La violenza degli scrosci sembra attenuarsi con l'episodio "En se calmant", dove le terzine passano alla mano sinistra mentre la destra suona la melodia. Con "Tempo en animant jusqu'à la fin", preceduto da un profondo borbottio sulle note gravi (Retenu), l'andamento diventa ancora più vorticoso. Troviamo una seconda citazione di canzone infantile con "Nous n'irons plus au bois", qui si affaccia l'immagine dei bambini spaventati dal temporale, con le improvvise folate di vento che si aggiungono alla pioggia. È il primo brano del programma dove Francesco Libetta ha modo di dimostrare la sua eccezionale tempra di virtuoso. In un programma incentrato su un virtuosismo dominante, ma che non si priva di momenti delicatamente intimistici, non potevano mancare i Trois mouvements de Petrouchka per pianoforte, composti da I. Stravinskij e dedicati al suo amico e grande pianista Arthur Rubinstein. Questi sono un arrangiamento per pianoforte della musica del balletto in quattro scene Petrouchka, composto per la compagnia dei Ballets Russes di Sergej Djagilev. Libetta affronta la Danse russe con grande veemenza, i potenti accordi iniziali, dal ritmo marcatamente scandito, risultano come un piccolo shock per chi ascolta.



È una musica espressa con forza selvaggia, che rappresenta un notevole stimolo fisico e psichico non solo per chi la esegue ma anche per chi l'ascolta, soprattutto dopo le eteree delicatezze debussyane. È tempo di riporre in un cassetto il bulino che aveva cesellato atmosfere incantate. Nei tre quadri stravinskijani deve emergere un vigore che impegna molto, anche fisicamente, l'esecutore. Fermo restando il loro ragguardevole valore artistico, non si può negare che siano utilizzabili pure come brani a effetto, costruiti ad arte per impressionare il pubblico (e il compositore non era certo lontano da questo intendimento). Disse molto chiaramente che i tre movimenti non erano una mera trascrizione mirata a ricalcare il suono orchestrale, ma avevano l'ambizione di essere una partitura prettamente pianistica tratta dalle musiche del balletto. Sotteso a queste desiderata c'è quindi l'intento di mettere nelle mani dell'esecutore una composizione che potesse mostrare la sua valentia tecnica. Non si lascia sfuggire l'occasione il grande virtuoso Francesco Libetta, che trova pane per i suoi denti: tutti e tre i movimenti comprendono improvvisi e ampi salti di nota, spesso dalla furia selvaggia, che si estendono su due ottave, una complessa poliritmia, scale fulminee, glissando multipli, tremoli, accordi complessi martellati con entrambe le mani e tutto ciò che può far tremare le vene e i polsi al più scafato tra i concertisti. Dalla battuta 59 alla 70 la declamazione non è pulitissima e qualcosina sfugge al controllo del pianista, forse un po' in debito d'ossigeno dopo un inizio così irruente. Ma lui riprende subito le redini nel prosieguo e dalla misura 71 c'inebria con delle velocissime scale di biscrome.



Un minaccioso tremolo sulle note gravi separa il primo dal secondo movimento, Chez Pétrouchka, a emulare il rullo di un tamburo. Ci trasferiamo nella stanza della marionetta. In questo quadro, dicono i musicologi, c'è il famoso accordo bitonale Pétrouchka, formato dalla sovrapposizione di due accordi, uno in do maggiore e l'altro in fa diesis maggiore, caratterizzante l'entrata in scena del personaggio. E qui accade un piccolo prodigio: dal diabolico meccanismo pianistico dell'Allegro si passa ai lampi di luce sinistra del Furioso, per approdare a un'umanissima melodia, dolce e malinconica, foriera dei più intimi sentimenti della marionetta nell'Adagietto. Bellissime le battute 15 e 16 dell'Andantino, dove quattro gruppi irregolari (settimine) sembrano rievocare il pianto di Pétrouchka. Ancora un cupo rullare di tamburo porta alla luce sfolgorante de La semaine grasse, dove il Borgato fa la differenza con la sua gamma media potente e luminosa, la quale sembra riassumere in se il "middle ground" di un'intera orchestra sinfonica. Libetta sa bene come far sprigionare da esso tutta la smagliante sonorità di cui è capace, poco dopo c'insegna quanto ritmo e colore siano fondamentali in Chopin. Un eccesso di rubato non giova a una musica così di per sé eloquente, anzi in certi frangenti può renderla stucchevole, sottrargli fierezza o profondità poetica. Ecco perché gli piace interpretare il genio polacco in maniera se vogliamo controcorrente, in modo sicuramente personale ed efficace, fluidificando ritmicamente la sua musica e centellinando con estrema attenzione le dinamiche.



Il "suo" Chopin viene così liberato dalle concrezioni interpretative accumulatesi nel tempo, riconquista freschezza e rimarchevole modernità. Sono tutte qualità che ritroviamo nella sezione chopiniana dell'impaginato di sala, molto variegato, protagonisti gli Studi Op. 25 N. 1, 2, 6 e 12, ognuno una perla che il nostro sa far brillare di luce propria. Vengono preceduti da un brano, il Valzer Op. 69 N. 1, che predispone il pubblico alle sonorità del grande compositore polacco. Tra lo Studio N. 12 e la Ballata Op. 23 N. 1 avviene un piccolo incidente di percorso, dove non sono le suonerie a infastidire, ma un rumore forte e secco, come di bastone che cade fragorosamente al suolo. Per fortuna succede tra un brano e l'altro, così non avrà problemi l'ingegnere del suono a far sparire l'inopportuna legnata. Riconosciamo in queste opere una preclara stoffa tecnica che sa trasformarsi in sublime poesia, operazione in qualche modo agevole per un pianista del valore di Libetta, anche perché gli Études, se da un lato avevano l'ambizione di gettare le basi per una tecnica pianistica rivoluzionaria, dall'altro sono un concentrato di bellezza melodica e per questo gettonatissimi nelle sale da concerto, anche come bis. Non a caso i due extra che ha concesso Libetta a fine recital sono entrambi chopiniani. È d'altronde del tutto evidente che questi Studi, sia gli Op. 10 che gli Op. 25, superano di gran lunga la valenza di meri esercizi per pianoforte per librarsi al livello di grandi capolavori artistici. Con disinibita verve Francesco Libetta affronta Lavapiés, dal terzo Cahier di Iberia, l'opera capolavoro di Isaac Albéniz, quella sicuramente più nota del compositore spagnolo.



In questo brano beneficiamo ancora una volta della straordinaria lucentezza che il Borgato Grand Prix 333 dimostra nel registro medio (ma non da meno è il basso, vasto, profondo e tellurico negli affondi). Il recital al Teatro degli Illuminati si conclude con un pezzo di estremo impegno virtuosistico. Doveva tenerci molto Maurice Ravel a La Valse Poème Corégraphique, visto che se la prese così tanto alla dichiarazione di Sergej Djagilev. Questi, infatti, dopo l'audizione lo ritenne sì un capolavoro ma allo stesso tempo ne decretò l'inutilizzabilità come balletto. Il compositore francese non la prese bene, tanto da interrompere ogni rapporto con l'impresario e, quando i due si rividero nel 1925, Ravel si rifiutò di stringere la mano di Djagilev. Addirittura Ravel arrivò a sfidarlo a duello, ma per fortuna il singolar tenzone non avvenne. Ma il noto impresario teatrale russo non doveva avere tutti i torti, considerato che pur essendo stata l'opera concepita come un balletto, in seguito è stata sovente eseguita come brano da concerto. La versione orchestrale vide la "première" a Parigi il 12 dicembre 1920 al Théâtre du Châtelet con l'Orchestre Lamoureux diretta da Camille Chevillard, mentre la versione per due pianoforti fu eseguita in pubblico la prima volta il 23 ottobre 1923 a Vienna, con lo stesso Ravel e Alfredo Casella alla tastiera. L'autore in realtà aveva già scritto una riduzione per un solo pianoforte, ma questa veniva e viene ancora oggi eseguita di rado a causa della sua grande difficoltà.



Ma Francesco Libetta non è certo pianista da farsi intimorire, anzi sono convinto che (anche a giudicare dai calorosi applausi del pubblico) in questo brano abbia dato il meglio di se in termini di abilità virtuosistica, sfoderando un'esecuzione impeccabile e dalla rara potenza. Ha toccato ne La Valse, ma anche in Petrouchka, la massima escursione dinamica possibile, nel passaggio dal "ppp" iniziale del Mouvement de Valse viennoise, una sorta d'indistinto brusio inteso a rendere il tremolo dei contrabbassi, al "fff" della ventiduesima misura prima della fine del brano; "In cauda venenum" dicevano gli antichi e qui assistiamo a un turbinare sempre più vorticoso e afinalistico che porta alla dissoluzione finale, perentoriamente asserita da quattro crome accentate e una semiminima. Oltre che nel dominio tecnico, Libetta ha avuto successo nel rendere viva quella sorta di macabra deformazione del valzer, intralciato da continue complicazioni ritmiche, da melodie troncate all'improvviso che portano dritto dritto a uno scenario di acido disfacimento. Non per nulla il compositore George Benjamin disse: "Se sia o meno stato concepito come una metafora della difficile situazione della civiltà europea all'indomani della Grande Guerra, la sua struttura a un movimento traccia la nascita, il decadimento e la rovina di un genere musicale: il valzer". Ravel tuttavia disconobbe questa teoria, affermando che La valse poteva sembrare tragica, come qualsiasi altra emozione, spinta all'estremo, ma che si doveva vedere in essa soltanto ciò che la musica esprimeva, vale a dire una progressione crescente di sonorità, cui il palcoscenico aggiunge luce e movimento.



E davvero il pianista salentino mostra di credere a questa visione, fornendo una lettura tersa, elegantissima, ricca di un'incessabile movimento interno e, soprattutto, atta a sprigionare una luce abbacinante. Alla fine del concerto il maestro concede due bis al pubblico, in una rinnovata immersione negli splendori chopiniani. Cosa di meglio per chiudere in bellezza e nella più pura musicalità? Nella comune accezione il pianista virtuoso è soprattutto quello che riesce a muovere le dita in maniera velocissima e precisa, magari martellando gli accordi come se fossero emessi da una pistola mitragliatrice Uzi. Peccato che questa si riveli una visione molto parziale poiché un grande virtuoso è anche, ma non solo questo. Virtuosismo è pure comprendere le possibilità di uno strumento e riuscire a sfruttarle al meglio, è saper graduare la dinamica in un range che va dal soffio impercettibile all'affondo devastante, essere in grado di suonare ogni brano non monotonamente, come tutti gli altri, ma adeguando la tecnica alla precipua poetica di un autore, al periodo storico in cui questo è esistito o alle correnti artistiche cui ha aderito. Così, nei brani impressionistici, un eccesso di puntiglio o di pulizia nella tecnica di dito non sono quelli ideali per rievocare quelle macchie di colore che resero famosi Monet o Morisot. Al contrario, nei compositori classici bisogna mettere in atto un modus operandi in qualche modo opposto. Di questo e di tanto altro ho parlato con il maestro Libetta all'uscita di un concerto che rimarrà a lungo nella mia mente e nel mio cuore, suonato da un grande pianista, proteiforme, in grado di far aderire come una seconda pelle i propri mezzi tecnici al brano che suona.




Alfredo Di Pietro

Settembre 2021


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