Spesso percepiamo lo scorrere del tempo in modo disuguale. Nelle tantissime tessere che compongono il mosaico del nostro vissuto, certi eventi rimangono vivi nella memoria mentre altri cadono rapidamente nel dimenticatoio. La mente opera una selezione mettendo lo "sticky" su dei momenti che ci hanno particolarmente colpito, altre volte le reminiscenze sembrano sepolte dalla polvere degli anni. Può accadere che sostino silenziose nei meandri del cervello, continuando comunque a lavorare in "background", salvo poi affiorare potenti alla minima sollecitazione. Uno degli episodi che più hanno condizionato la mia vita di melomane è la scoperta della Sonata N° 30 Op. 109 di Ludwig van Beethoven, delle trentadue che scrisse il genio di Bonn la mia preferita. Ero un ragazzino di dodici anni quando l'ho sentita per la prima volta su una fonovaligia Lesaphon. Facevo girare per ore il vinile Joker con quella sonata interpretata dal pianista tedesco Adolf Drescher. Mi lasciavo investire da quei suoni, rapito da una musica di cui intuivo la grandezza ma che non riuscivo a penetrare completamente. Perdurava in me la sensazione di un qualcosa di riposto, che sfuggiva alla mia piena comprensione, inseguito con ostinazione e mai raggiunto. Era una musica troppo grande per me, covavo la presunzione di farla mia, cercavo le ragioni del sortilegio sonoro senza però riuscire a darmi una risposta. Il ragazzino di allora è oggi diventato un uomo maturo ma il lavoro d'incessante ricerca non è ancora finito.
Con il tempo le cose sono cambiate, l'ipotetica sfida si è trasformata in una presa d'atto: difficile, se non impossibile, fissare in un'istantanea un capolavoro così profondo che mi ha seguito (e che ho inseguito) in tutti questi anni. L'ansia di afferrare quest'"oggetto" in continuo movimento è gradualmente svanita lasciando il posto a un altro sentimento, quello del totale abbandono all'incantesimo sonoro senza farsi troppe domande. La Sonata N° 30 è un'opera enigmatica, sfuggente, ogni tentativo d'ingabbiarla nei nostri schemi mentali è miseramente destinato a fallire. Quando credi che non abbia più nulla da dire, quando pensi di averla messa a nudo lei corre via, ogni volta si rigenera in mille rivoli espressivi tutti da scoprire. L'Op. 109 è nata e cresciuta con me senza diventare mai adulta, eterno germogliare di stati d'animo. A questo punto entra in scena una pianista che non conoscevo, Francesca Khalifa, giunta quasi in punta di piedi, con discrezione "invade" il mio spazio musicale. Lei mi ha offerto la sua sorprendente arte, consegnata nella maestosa purezza di un nobile gesto pianistico. Nell'era del Web 2.0 capita sempre più di frequente che i rapporti umani si sviluppino virtualmente, sui Social, nei Forum di discussione. Si corre però un rischio. Veder affiorare dalla superficie equorea di Internet una persona con la quale non si è potuto avere un contatto umano reale può creare dei malintesi, comunque costringe a un lavoro d'interpretazione degli elementi, pochi o molti che siano, che ci parlano di lei a distanza.
Si pone il problematico compito di distillare il reale dal virtuale. Le immagini, i video su You Tube, le interviste, ciò che una persona ha scritto, devono portare all'individuazione del suo lato umano, all'intuizione della sua personalità come diretta emanazione di quelle informazioni. Facile intuire qual è il primo video di Francesca che ha catturato la mia attenzione su You Tube: proprio quello dell'interpretazione dell'Op. 109 di Beethoven, solo dopo sono seguiti tutti gli altri, compreso quello del suo ieratico Bach. Cosa allora è avvenuto? Che una splendida pianista mi ha riportato alla mente la sonata prediletta, per me un riferimento assoluto d'introspezione non spazzato via dal cancellino del tempo. L'ho rivissuta grazie a lei, che sembra mettere tutta l'anima in quello che fa. Sono sempre più convinto che un concertista non vada solamente ascoltato ma anche veduto. Il grande Sviatoslav Richter era di opinione diversa, per lui la forza interiore era tutto, l'immagine passava in second'ordine. Chi tuttavia lo ha visto suonare nelle registrazioni ha la possibilità di coglierne la staordinaria potenza espressiva. In Francesca Khalifa non passa inosservata la sobrietà, la nobiltà del gesto. Nessun alone di platealità maschera la sua profonda sensibilità. Manifesta un'emotività raccolta ma non priva di forza, traspare dal suo modo di suonare la consapevolezza delle radici storico-culturali di quanto interpreta. Porta d'ingresso per un cosmo espressivo d'inestimabile ricchezza, la Sonata N° 30 inizia tra l'iridescente serenità del primo tema, bruscamente troncata dal tremendo senso d'ineluttabilità che erompe dalle secche sferzate del secondo movimento, il breve e burrascoso "prestissimo", tempestoso transito verso le beatitudini dell'"Andante molto cantabile ed espressivo", parte conclusiva di un formidabile percorso spirituale in cui il tema variato subisce un progressivo processo di smaterializzazione.
LA BIOGRAFIA
Francesca Khalifa è un'artista a tutto tondo, dotata di sopraffina sensibilità e solide basi culturali. Degna di lode è la riconoscenza che nutre verso i suoi maestri e l'ammirazione nei confronti della prestigiosa scuola pianistica in cui è cresciuta.
La concertista italiana vanta una formazione internazionale. Sotto la guida del maestro Walter Bozzia ha conseguito il diploma di primo livello, con il massimo dei voti, presso il Conservatorio "Guido Cantelli" di Novara. Al termine degli studi si è perfezionata con pianisti di fama come Oleg Marshev e Nazareno Carusi, ottenendo in seguito il diploma di Master of Music presso il Conservatorio di Utrecht in Olanda, sotto la guida di Henry Kelder e Klara Wurzt. Nel suo percorso artistico è risultata vincitrice di numerosi concorsi nazionali ed internazionali. Tra gli altri, il primo premio al concorso pianistico "N. Van Westerhout" di Mola di Bari nel 2005, primo premio al "Città di Massa", sempre nel 2005, primo premio al "Loreto Lancia" di San Giovanni Teatino nel 2006. Nel 2007 è stata finalista conquistando il terzo posto al concorso pianistico "Città di Schio" della Fondazione Alink-Argerich. Arriviamo all’estate 2014, quando Francesca Khalifa ha vinto il festival pianistico internazionale "Ferrara International Piano Festival", dove ha avuto la possibilità di lavorare ed essere premiata dal noto pianista e musicologo austriaco Paul Badura-Skoda.
In anni recenti, i suoi mentori e insegnanti sono stati musicisti della tradizione lisztiana e allievi di Claudio Arrau: il cubano German Diez, allievo e assistente di Arrau a New York, e la cilena Ena Bronstein-Barton, anche lei allieva di Arrau e docente a Princeton, nel New Jersey. Svolge intensa attività concertistica, impegnata sia come solista che in formazioni cameristiche. In veste di solista ha tenuto concerti presso teatri italiani e stranieri, tra i quali recentemente il Ridotto del Teatro Abbado di Ferrara, l’Auditorium Leonardo di Bogotà, il Teatro Piccolo Coccia di Novara, il Palazzo Ducale di Martina Franca, il Saklad Auditorium e il Brooklyn Center for the Arts e Spectrum (New York City), la Art Gallery della University of Central Florida in Orlando. Vanta inoltre presenze all’Auditorium "Fratelli Olivieri" a Novara, nella chiesa di Saint Merry a Parigi, nella Concert Hall presso la Manhattan School of Music. Ha anche collaborato con l'Orchestra "Guido d’Arezzo" di Melzo (dove ha eseguito il Concerto KV 414 di W.A. Mozart e il Concerto in La minore di R. Schumann), con l'Orchestra del Conservatorio di Utrecht (Concerto N°1 di D. Shostakovich) e la Hoorn Chamber Music Festival Orchestra con lo sfavillante Carnevale degli Animali di C. Saint-Saëns. Ricco il suo curriculum anche nell’attività cameristica, che include la collaborazione con la clarinettista italiana Giulia Zannin, con lei Francesca ha tenuto diversi concerti in Olanda, Francia, Austria, Svizzera. È stata per diversi anni pianista del van Eyck Piano Trio in Olanda, esibendosi in diversi concerti in Olanda e Francia.
Nel 2012 ha vinto una Fellowship per diventare la pianista del President’s Trio alla University of South Florida a Tampa (USA). In questo paese si è poi stabilita. Francesca Khalifa è una grande sostenitrice dell'importanza che riveste l'educazione musicale e artistica nella società moderna, è impegnata nell'attività di insegnamento in diverse accademie musicali a New York ed è stata Professore Aggiunto di pianoforte e musica da camera alla University of South Florida di Tampa e alla New York University. Particolarmente meritoria è stata la sua partecipazione come artista e professore ospite, nell'estate 2015, al Conservatorio Edward Said a Gerusalemme e Betlemme, a sostegno dello sviluppo culturale nonché del processo di pace e cooperazione tra Israele e Palestina. Nell'ambito dei corsi di perfezionamento citiamo quello seguito presso il Konservatorium di Vienna sotto la guida dell’Altenberg Trio. Nella sua instancabile attività è attualmente direttrice artistica della serie concertistica Classical Thursdays presso il Brooklyn Center for the Arts e svolge attività di ricerca musicologica sulla eredità del pianista cileno Claudio Arrau. Lavora inoltre come Professore Aggiunto alla New York University, dove sta completando pure un diploma "post-graduate" con specializzazione in educazione musicale.
GERMAN DIEZ NIETO E LA SCUOLA PIANISTICA DI CLAUDIO ARRAU
C'è un forte legame tra l'orientamento interpretativo di Francesca e la scuola del grande pianista e insegnante cileno Claudio Arrau. "Sono stata in Olanda mentre l'America è arrivata un po' come una sorpresa nel 2012" afferma in una recente intervista rilasciata a Francesco Di Marco di Radio Popolare. "Dopo quattro anni di soggiorno in Olanda ho ricevuto una borsa di studio negli USA, in Florida. Non ero mai stata in questo paese e così ho colto l'occasione per conoscerlo. L'esperienza in Florida è stata molto interessante, sicuramente diversa da quella newyorkese, città dove attualmente risiedo". Un salto notevole quello dall'Olanda all'America, paese che a prima vista sembra avere poco o nulla a che fare con la figura del pianista cileno. In realtà l'America c'entra moltissimo con Claudio Arrau, artista che da bambino si era spostato in Germania diventando un tedesco adottato. Con la guerra si trasferì negli USA, dove poi si è stabilito sino alla fine della sua vita. Era legato in particolar modo con la città di New York, lì ha insegnato, fondato la sua scuola pianistica intorno alla fine degli anni '40, rimasta attiva per 25 anni, sino agli anni '70. Arrau ha continuato a dare lezioni sino a età avanzata. Dice Francesca: "il mio maestro German Diez, con cui ho avuto l'onore di studiare nei suoi ultimi due anni di vita, è stato allievo di Claudio Arrau per dieci anni, poi è diventato suo assistente". Esiste una pubblicazione recente, di un paio d'anni fa, di una musicologa americana che ha studiato con diversi allievi di Arrau.
Si tratta di un libro molto interessante che spiega la sua scuola pianistica e chi sono stati i suoi discepoli. Forse non è abbastanza noto, ma il grande pianista cileno ha dedicato tanto tempo all'insegnamento, amava moltissimo trasmettere ad altri la sua conoscenza del pianoforte. Francesca Khalifa ora studia con un'allieva di Arrau, di una generazione però più recente. "La cosa che ricordano con più affetto tutte le persone che hanno fatto parte di questa tradizione, è l'incredibile amore che Arrau metteva nell'insegnamento". Ciò che riteneva della massima importanza in musica era assumere un atteggiamento di estrema responsabilità, prendere sul serio lo spartito, considerare la musica come un viaggio alla scoperta della nostra intimità, della nostra psicologia. I principi più importanti che a sua volta German Diez ha trasmesso ai suoi allievi erano proprio questi. Si da importanza al lavoro d'interprete, considerato come una vera e propria missione. In molti degli allievi di German Diez si "sente" Arrau, così come avviene con Ena Bronstein. Per comprendere a fondo l'arte di Francesca Khalifa non si può prescindere dalla traccia profonda che questi insegnamenti hanno lasciato in lei. Per quanto riguarda me, semplice appassionato, esiste un prima e un dopo. I video su You Tube hanno acquistato una luce completamente diversa nel momento in cui ho preso coscienza delle sue radici culturali, una "conditio sine qua non" si possano apprezzare le ragioni di un pianismo così sincero e introspettivo. Lei da un rilievo diverso a ogni frase, allontana il meccanicismo conferendo umanità e grandissima attenzione ai dettagli, alla ricerca interiore.
Afferma: "Non si tratta soltanto di essere tecnicamente preparati come pianisti, ma di guadagnare la profondità espressiva". Una delle caratteristiche della scuola di Arrau consiste in quello che più spesso sottolineano i suoi allievi, vale a dire l'enorme rispetto per la fatica, per la ricerca che il pianista porta avanti e che è parte propedeutica alla sua interpretazione. Un lavoro che dovrebbe essere intrinseco all'essere artisti, nella consapevolezza di affrontare un percorso molto faticoso, implicante dedizione assoluta e anche una grande vulnerabilità, tutte doti che Arrau apprezzava e supportava moltissimo. German Diez, maestro di Francesca tra il 2012 e il 2014 (anno della sua morte), ha tramandato tutto questo ai suoi studenti. Claudio Arrau adottava, in generale, dei tempi più lenti rispetto ai suoi contemporanei. Non manifestava mai un virtuosismo fine a se stesso, anche se era in grado di affrontare in modo perfetto qualsiasi partitura, anche la più difficile. "Nessuna registrazione di Claudio Arrau mi ha mai deluso", afferma Francesca "nessuna mi ha mai lasciato la sensazione di una prestazione ostentata allo scopo di dimostrare che si sa suonare. Cosa che invece mi capita spesso con altri pianisti, anche molto famosi. Per il pianista cileno era un vizio imperdonabile quello di essere superficiali e vanitosi. Rigettava l'idea del suonare per avere successo".
GLI SCRITTI
Francesca ha voluto inviarmi due suoi scritti, la traduzione di un articolo sulla Sonata N° 30 Op.109 di Beethoven e una breve introduzione a un progetto che le è molto caro e sul quale sta lavorando con passione: "German Diez Nieto e la scuola lisztiana". Quest'ultimo è solo il primo tassello di un importante lavoro di ricerca. Vengono messi a fuoco due argomenti di rilievo, i quali s'innestano nell'economia del mio articolo spostando il punto d’incrocio tra la "freddezza" della notizia scritta e una palpitante umanità, a favore della seconda.
Ve li propongo entrambi.
GERMAN DIEZ NIETO E LA SCUOLA LISZTIANA
È storia che il grande pianista cileno Claudio Arrau sia stato uno degli ultimi allievi di Martin Krause, a sua volta discepolo di Franz Liszt. Quello che è meno noto è che Arrau abbia dedicato una considerevole parte della sua vita a creare una scuola pianistica nella tradizione di Liszt e Krause. La scuola pianistica di Arrau ancora vive nel lavoro dei suoi ultimi esponenti diretti e degli allievi di questi. Si tratta di una comunità relativamente piccola, che si riconosce in determinati valori e coltiva un atteggiamento tipicamente lisztiano nei confronti della musica e dell'espressione artistica. Il pianista cubano German Diez lasciò il suo paese natale nel 1945 a 20 anni, con una borsa di studio garantita personalmente da Arrau per studiare con lui e diventarne successivamente assistente a New York. In più di sessant'anni d'instancabile e dedicato lavoro artistico e pedagogico, German ha creato attorno a sé una famiglia di musicisti al cui interno si contano nomi che hanno acquistato fama e dimensione internazionale, permettendo allo stesso tempo di tenere in vita la grande tradizione pianistica lisztiana. Nato nel 1924 a l'Avana, ultimo di sei fratelli, German Diez Nieto si avvicinò agli studi musicali sotto la guida del fratello maggiore Alfredo Diez. Quest'ultimo era un bambino prodigio, destinato a diventare uno dei più celebrati e premiati compositori della musica classica cubana, nonché pilastro dell'educazione musicale nella Cuba pre e post- rivoluzionaria.
Alfredo ebbe un ruolo incredibilmente importante nella formazione musicale del fratello, in quanto fu il primo e unico insegnante che German ebbe prima dell'incontro con il grande pianista cileno Claudio Arrau. Di cinque anni più vecchio, Alfredo aveva iniziato lo studio del pianoforte a cinque anni sotto la guida della pianista spagnola Rosario Iranzo. La scuola pianistica di cui Iranzo era esponente era affiliata a una delle più rilevanti tradizioni pianistiche europee: suo maestro a Valencia fu Eduardo Compta, che fu anche maestro di Isaac Albeniz e Enrique Granados e che, a sua volta, aveva studiato con Pedro Albeniz, uno dei più rilevanti pedagoghi spagnoli. Compta studiò per un periodo anche a Parigi con Georges Mathias, allievo di Frederick Chopin, creò una scuola e un metodo che rimane alla base dell'insegnamento pianistico in Spagna per tutto il periodo romantico e del primo Novecento. Esposto così a una delle più sofisticate tradizioni pianistiche, Alfredo fa la sua strada nel mondo musicale cubano con prodigiosa precocità: con otto ore di studio al giorno, a 12 anni vede nel suo repertorio tutti gli studi trascendentali di Liszt e a 15 anni, fresco di diploma, viene nominato Professore di Piano e Composizione proprio nel Conservatorio dove Iranzo aveva studiato. Qui, sotto la mano benevola del fratello maggiore, German iniziò i suoi studi musicali in pianoforte e teoria musicale. Durante gli anni della formazione, l'interesse artistico di German oscillò spesso tra la musica, la pittura e scultura.
Il giovane cubano frequentò con successo la prestigiosissima Scuola Nazionale di Belle Arti di San Alejandro. Alfredo definiva la personalità di German come "essenzialmente creativa e attratta da tutto ciò che è artistico" e non era stupito dal desiderio del fratello di dedicarsi alle arti figurative. Ma l'inclinazione verso la musica prevalse e German divenne presto uno dei più promettenti giovani pianisti cubani. Nel 1943, a 19 anni, German portò a termine i suoi studi accademici diplomandosi con i massimi onori e guadagnando il titolo di Professore di pianoforte e teoria musicale.
SULL'OPERA 109 DI BEETHOVEN
Se solo uno abbia voluto allontanarsi dal passato,
il passato di nuovo creerà il presente.
L. van Beethoven, Diari, entrata N° 44
Il cosiddetto stile del "tardo" Beethoven fa di solito riferimento alle opere che il compositore scrisse dopo il 1817. È chiaro che la musica di Beethoven subì una forte trasformazione durante gli ultimi dieci anni della sua vita. Non fu però, naturalmente, un brusco cambiamento di direzione e molti elementi che preannunciano aspetti particolari del tardo stile possono essere ritrovati in musica scritta già agli inizi del 1810. La fase finale della vita creativa del compositore tedesco, nella "fusione di tendenze retrospettive e moderniste" (1), ha ampliato il modo in cui l'arte esprime e rappresenta gli stati emotivi umani, portandola a toccare limiti che non furono mai toccati prima, trasformando i modelli strutturali Classici e "preparando la via per la loro eventuale dissoluzione" (2). Senza dubbio nei suoi ultimi anni Beethoven si trovò a dover superare prove estremamente difficili nella sua vita personale: il fallimento del suo progetto di felicità domestica e l'impossibilità di matrimonio, risultante in una tendenza più forte all'isolamento dalla società; le lotte, personali e legali, per la tutela del nipote Karl; la discesa alla sordità totale dal 1818. Tutti questi furono chiaramente punti di svolta nello stato psicologico di Beethoven e richiesero un grande sforzo da parte del compositore per essere superati. L’idea romanticizzata di famiglia nella quale si era rifugiato durante tutta la sua vita, respingendo le sue figure genitoriali e ricercando una agognata discendenza reale per se stesso, ora lasciava posto ad un senso di appartenenza.
Sembra proprio che negli ultimi anni della sua vita, Beethoven abbia sviluppato un senso di auto-accettazione, auto-amore e auto-consapevolezza, arrivando finalmente ad una riconciliazione con se stesso e la propria storia. È chiaro che questo è stato un processo fondamentale anche nella definizione del suo stile tardo. La sua musica non rappresenta più la lotta e la vittoria dell'eroe umano sul fato, bensì ora il trionfo della volontà sulla mortalità: "(l'eroe) infine ottiene il massimo stato di auto-realizzazione e illuminazione […], raggiunge una unione mistica con la divinità e su un piano più alto di trascendenza che qualsiasi altro espresso nella storia dell'arte occidentale" (3). Tra gli ultimi capolavori, le ultime cinque sonate per pianoforte (Op. 101, 106, 109, 110, 111) incarnano emblematicamente il conseguimento di questo risultato, sviluppando nelle loro forme monumentali una sorta di "linguaggio metafisico della musica", come Arrau lo definì, "un linguaggio dove i trilli diventano un tremore delle anime e gli arpeggi si stagliano nell'infinito del tutto" (4). Scritto dopo la più lunga crisi nella vita di Beethoven (con la vittoria alla corte di appello per la tutela del nipote Karl), la Sonata Op. 109 appartiene completamente all'anno 1820. Ciò è confermato dagli schizzi per la Sonata: quelli per il primo movimento sono per la maggior parte nei libri di Appunti Wittgenstein, tutti datati 1820 e tutti i noti bozzetti per il secondo e il terzo movimento sono in Artaria 195, anche datata 1820.
Questo anno segna il primo anno della ripresa emotiva che il compositore ha intrapreso dopo la crisi, che fu consistente anche per le conseguenze della dolorosa vicenda con la Immortale Amata nel 1812 e che ha raggiunto il suo culmine nel 1818.
Una crisi che lo ha portato a esplorare tutte le possibilità della natura umana per poter essere superata e che si risolse anche in un crescente senso di spiritualità e quasi misticismo, portando allo sviluppo di una nuova forma di umanesimo (come testimonia la sua Missa Solemnis e il grande inno alla gioia della Nona Sinfonia). Una forma di fede non intesa nel puro e rigoroso termine religioso (e i Diari sono imbevuti di questo rinnovato senso di sacralità), anche se non esente da lotte e fatiche intime. L'apertura della Sonata N° 30 ben esprime tutte queste trasformazioni e conflitti interni. La prima frase è un tema di 8 battute (4 e 4), sempre legato e dolce, che annuncia il nuovo riscoperto senso di calma e serenità. È stato un lungo processo di riflessione e di sperimentazione quello che ha portato la versione finale della Sonata ad iniziare con una anacrusis (come i bozzetti illustrano, la prima versione aveva un battere iniziale (5). Questa organizzazione di accenti porta la prima cadenza in mi maggiore (battuta 3) sul battere, conferendole un posto emotivamente importante. È dopo questa prima dichiarazione di serenità che la frase sembra ruotare verso quello che sarà l’Adagio espressivo.
Quasi inaspettatamente, la dolorosa e amara memoria del recente passato torna indietro e si apre in un momento di intensa drammaticità, con dubbi messi in rilievo dagli estremi contrasti dinamici che esplodono nel gigantesco arpeggio che squarcia la tastiera e che trasforma il secondo tema in un momento di trasfigurazione (con l'uso di una tecnica di variazione entro il tema stesso) che conduce alla sezione di sviluppo a battuta 16. È davvero sorprendente che già in questa breve apertura della Sonata Beethoven utilizzi tutti gli elementi della forma sonata classica, ridefinendone il concetto e dissolvendoli in una nuova prospettiva, non meno convincente o meno definitiva rispetto a quella tradizionale. In meno di quindici battute condensa l'esposizione del primo tema, la modulazione al secondo e la cadenza per la sezione dello sviluppo. L'essenza della forma sonata, pur essendo tutti gli elementi intatti (anche armonicamente parlando, il primo tema accade nella tonica e il secondo nella dominante), arriva ad una completa evaporazione: le proporzioni tra le parti sono drammaticamente compresse e anche la funzione di ciascuna parte diventa diversa e meno rigida. Il telaio si apre e diventa flessibile, un luogo dove tutti gli elementi rappresentano e chiariscono un specifico bisogno espressivo. Altra caratteristica importante di questo primo movimento è la chiusura non definitiva. Armonicamente parlando, vi è la conferma della tonica, ma il modo in cui la frase si chiude è aperto e non conclusivo (specialmente se confrontiamo la versione finale con gli schizzi, dove vi era una doppia barra finale e l'ascesa della mano destra nel registro acuto era mantenuta fino alla fine con una conseguente "forte ascesa lineare alla conclusione sul mi" (6).
Tutto questo primo movimento sembra essere così una domanda aperta e la risposta finale al "si" arriverà soltanto alla fine dell'ultimo movimento. Collegato al primo movimento da un attacca (anche se non letterale, bensì suggerito dal fatto che Beethoven inserisce un pedale tra l'ultimo accordo del primo movimento e l'inizio del secondo movimento) vi è il drammatico e angustiato prestissimo del secondo movimento. Qui le lunghe frasi legate, che erano così importanti nel primo movimento, sono del tutto dissolute. Tutto diventa più frammentato e tormentato, interrotto e ritmicamente convulsivo e insistente. La dichiarazione iniziale del secondo movimento, nel suo carattere quasi furioso, conosce solo un momento di sospensione: il momento di dialogo della battuta 70. Una imitazione di voci che si risolve in una corda e "pp" sull'accordo di fa diesis. Chiaramente non è un momento di risoluzione. In realtà sembra che l'incertezza e l'angoscia non trovino una risposta finale in questo secondo movimento e la sua fine impone la ricerca di una soluzione emotiva. E questo è il ruolo svolto dal terzo movimento, una serie di variazioni che Beethoven dipana su un tema di incredibile intimità e che ha gli accenti di una preghiera .Questo movimento non è solo una risposta armonica e formale a quelle precedenti. Esso incarna quella che è la risposta spirituale e psicologica che Beethoven ha trovato per se stesso, nei suoi anni finali, ai suoi conflitti interni.
L'ultima entrata nei Diari dice: "con tranquillità, o Dio, mi sottometto al cambiamento e ripongo tutta la mia fiducia nella tua inalterabile misericordia e bontà" (7). Essendo Arte e Dio spesso un’idea intercambiabile (8) in Beethoven, sembra che l'arte sia diventata il mezzo di sublimazione, illuminazione e auto-realizzazione per il compositore negli ultimi anni. L'idea di elevazione, salvezza e vittoria insieme ad un concetto mistico di unione e di riconciliazione è in realtà il nucleo di tutte le opere finali. Per quanto riguarda il movimento finale della Sonata Op. 109, qui è il tema del terzo movimento che assume il carattere e la forma di un'intima preghiera, aprendo la strada a un'illuminazione spirituale: un cantabile (gesangvoll), in mezza voce con tre strati di linee melodiche di direzione ascendente-discendente che sembra plasmato su parole (piccole frasi di una o due battute al massimo, con un'attentissima distribuzione di accenti, data anche dalle sincopi, come nelle parole). L'utilizzo delle variazioni è una tecnica piuttosto familiare a Beethoven, ma soprattutto nelle opere tarde essa acquista una particolare connotazione: come le variazioni di Diabelli dimostrano su scala titanica, il processo diventa una trasformazione del tema in qualcosa che giace su un livello metaforico e metafisico. La variazione tecnica diventa la forma di un viaggio da un livello di coscienza ad uno completamente trasfigurato. Nel movimento finale dell'Op.109, ogni variazione incarna uno stato della mente più vicina alla sublimazione descritto e racchiuso nell’ ultima variazione.
Dal momento lirico della Var. 1, con la sua intensa espressività melodica che giace sulla linea di un'armonica distante, al dialogo in Var. 2, dove le voci si rispondono vibrando insieme in una successione di trilli mozzafiato. L'esuberanza della Var. 3, come un suggerimento della gioia che la trasformazione e la nuova prospettiva sta portando, conduce a un nuovo momento drammatico e lirico nella Var. 4, dove la fatica dell'ascesa spirituale si scontra per un momento con la realtà umana e si libera in un fugato nella seguente Var. 5. Questo è un momento cruciale nell'intero movimento: la fuga qui è la "battaglia e la lotta della volontà, un atto umano di fede" (9). E infine si arriva alla rivelazione della Var. 6, dove i trilli arrivano a descrivere una dimensione di immobile (10) eternità, e il movimento discendente ascendente delle voci da un senso di arrivo alla musica, aprendosi in una mistica onnipresenza di voci. Non è solo in quest'opera che Beethoven dà all'ultimo movimento la funzione di una risposta emotiva di risoluzione degli eventi/movimenti precedenti in qualità di preparazione per una elevazione spirituale. Forse il più grande esempio di questo è la sua Nona Sinfonia. Se l’inizio qui rappresenta il caos della creazione e simboleggia uno stato mentale di ricerca e d'interrogazione, l'ultimo atto di questa monumentale opera è quasi un evento unico nell'intero corpus beethoveniano: "in esso, ha invocato ogni concepibile strategia per la realizzazione dei suoi propositi apocalittici e profetici, portando in scena scenari mitici, materiali descrittivi, indicazioni programmatiche, motivi unificanti, e l'intero repertorio di allegoria armonica e altri simbolismi musicali" (11). Come se la musica avesse bisogno di diventare ancora più specifica, Beethoven introduce le parole e consegna all'Ode alla Gioia il più grande dei suoi messaggi:
Felicemente, come i Suoi figli volano
Attraverso la via del potente cielo,
affrettatevi, fratelli, sulla vostra strada,
con gioia, come eroi vittoriosi.
[…]
Abbracciatevi nella vostra moltitudine!
Lasciate che questo bacio sia per tutto il mondo!
È interessante notare che la Nona Sinfonia e la Sonata Op. 109 condividono una caratteristica comune. Entrambi i capolavori avrebbero potuto avere una fine completamente diversa. La sinfonia originalmente aveva un finale strumentale (materiali derivati da questa idea furono in seguito utilizzati nel quartetto per archi Op. 132) e l'Op. 109 non prevedeva la ripresa finale del tema. Quasi in nessun'altra delle sue opere Beethoven include una ripresa così letterale come nell'Op. 109. Sembra quasi che egli volesse tornare a ciò che era stato lasciato alle spalle dopo il lungo processo di metamorfosi e guardare con occhi nuovi: "il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi" (12).
1) Maynard Salomon, Late Beethoven
2) Maynard Salomon, Late Beethoven
3) Claudio Arrau, Thoughts on Beethoven Sonatas
4) Claudio Arrau, Thoughts on Beethoven Sonatas
5) Nicholas Martson, Beethoven Op.109 - Schenkerian Analysis
6) Nicholas Martson, Beethoven Op.109 - Schenkerian Analysis
7) Maynard Salomon, Beethoven’s Diary
8) Arte e Dio spesso condividono gli stessi epiteti e sono spesso insieme
9) Claudio Arrau, Thoughts on Beethoven Sonatas
10) Un'analisi interessante dell'importanza della lentezza nell’ultimo Beethoven in Maynard Salomon, Late Beethoven, Intimation of Sacred
11) Maynard Salomon, Late Beethoven
12) Marcel Proust, La prisonniere
Alfredo Di Pietro
Novembre 2016