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Donnerstag, 28. März 2024 ..:: Intervista al maestro Giuseppe Andaloro ::..   anmelden
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Alfredo Di Pietro: Maestro, le mie interviste iniziano sempre con la medesima domanda: quando, dove e come è nata in lei la passione per la musica e il pianoforte?

Giuseppe Andaloro: La mia passione è nata da bambino, grazie all'amore sconfinato che ha sempre avuto mio padre per la musica. Anche mia madre nutriva lo stesso interesse per essa. Per me è stato un approccio molto naturale perché in casa la ascoltavamo sempre, tra l'altro in alta fedeltà, quindi a un elevatissimo livello qualitativo di riproduzione. Sin da piccolissimo ho avuto modo di goderne, peraltro di tanti generi diversi poiché mio padre, pur privilegiando la classica, sentiva anche altri tipi di musica, come per esempio il jazz. Ho avuto insomma la possibilità di avvicinarmi al mondo della musica e dei suoni grazie alla mia famiglia. Di certo i primi passi sono stati graduali, come avviene in tutti i bambini. In casa avevamo un pianoforte verticale che io cominciai a toccare per gioco e da lì i miei genitori si accorsero che avevo una certa facilità di apprendimento e propensione per questo strumento. In seguito ho iniziato a studiare, come fanno tutti i ragazzini, progredendo abbastanza rapidamente rispetto agli altri allievi della scuola. È stata una crescita costante, passo dopo passo, e intorno ai dodici, tredici anni mi sono accorto che la musica era diventata la mia vita. Avevo non voglio dire le idee chiare, ma già credevo di proseguire per diventare un concertista, cioè quello che avevo in mente di fare già nelle prime fasi dell'adolescenza.

ADP: Lei ha iniziato ancora giovanissimo un'intensa attività concertistica e in tenera età ha mosso i primi passi sullo strumento. Possiamo considerarla per questo un bambino prodigio?

GA: Si, però inteso in una maniera non molto contemporanea, cioè, come ho cercato di spiegare prima, facendo sempre dei passi graduali. Ho avuto la fortuna di possedere dei genitori che non volessero a tutti i costi un figlio desideroso di sfoggiare la sua bravura, mi hanno così assecondato nello studio, instradato verso la musica potendo contare su maestri locali e poi anche fuori dalla Sicilia. Tutto è però avvenuto a piccoli passi e in modo progressivo; non avevano l'intenzione di farmi diventare la scimmietta o il mostro da esibire, perché si poteva fare anche questo. All'età di dodici anni avevo una certa facilità con le mani, riuscivo a suonare gli studi di Chopin, quindi volendo sarei potuto andare pure negli studi televisivi. All'epoca c'erano tante trasmissioni tipo Bravo Bravissimo con Mike Bongiorno su Canale 5, ricordo che se ne parlava parecchio però sia io che i miei genitori abbiamo avuto l'intelligenza di non prenderle in considerazione. Ora che sono adulto farei la stessa cosa con i miei figli perché, onestamente, non mi piacciono i bambini, anche dotatissimi, che a tutti i costi devono mostrarsi per le loro incredibili doti. Il talento va coltivato, bisogna che anche il corpo si sviluppi e secondo me è un errore gigantesco quello di eseguire Rachmaninov a nove anni. Sono cose sbagliate, a prescindere dall'eventuale prodigio che si ha davanti. A certe età si è ancora troppo piccoli per capire quello che si sta facendo. C'è sempre stata della sensatezza dietro le scelte che mi riguardavano e sono contento che sia andata così.

ADP: È davvero impressionante la lista delle sue partecipazioni a prestigiosi festival, esibizioni in rinomate sale da concerto, collaborazioni con grandi orchestre ed eccellenti direttori. L'accumularsi nel tempo di molteplici esperienze ha cambiato il suo modo di suonare il pianoforte?

GA: Senza dubbio sì perché la formazione vera e propria, al di là del periodo di studio, dell'apprendistato in Conservatorio, degli esami sostenuti, cioè del periodo scolastico, dev'essere affiancata dalla cosiddetta gavetta, dall'esperienza sul palco con altri musicisti, siano essi in gruppo cameristico od orchestra. Queste sono le fondamentali opportunità che bisogna avere la fortuna d'incrociare, altrimenti non si cresce e si è impossibilitati a raggiungere un certo livello. Più si ha modo d'incontrarsi e di collaborare più si migliora. Più importanti sono i musicisti con i quali si lavora, più s'impara, allargando il proprio spettro cognitivo della musica, della performance sul palco e tutta una serie di valori anche squisitamente umani. Oltre all'addestramento tecnico che un musicista fa sullo strumento, ce n'è uno un po' più grande che si compie sul palcoscenico, è lì che s'inizia a capire come reagisce il pubblico in base a un tuo certo modo di suonare o di presentarti. Ci sono tantissimi fattori da considerare nel nostro lavoro ed è fondamentale accumulare quanta più esperienza possibile. Oggigiorno lo Stato italiano da questo punto di vista non garantisce granché, però quando ero ragazzino ricordo che al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, dove a diciott'anni mi sono diplomato, c'erano comunque tante possibilità, come i diversi concorsi che si facevano al suo interno e l'occasione, per quelli più meritevoli, di suonare con l'Orchestra del Conservatorio. Devo dire di aver avuto quest'onore, per me è stata una cosa importantissima. Sono tutti tasselli di esperienza che ti fanno sicuramente crescere, portandoti in seguito ad affrontare un'eventuale carriera con un po' di sostanza e anche di maturità.

ADP: Molto vasto è il suo repertorio, che va dal Rinascimento alla musica moderna e contemporanea. Nell'ambito di questo, quali sono gli autori con i quali si sente più in sintonia?

GA: Questa domanda la trovo difficilissima, essendo io forse un po' troppo eclettico rispetto a tanti miei colleghi pianisti. Loro riescono magari a focalizzarsi su un dato periodo storico o hanno uno, due o tre compositori preferiti nei quali si specializzano, io invece non riesco a fare questo. In vari momenti della mia vita musicale ho avuto delle fasi diciamo così d'innamoramento per determinati periodi e autori, cosa che mi ha portato a spaziare tantissimo nei repertori poiché sentivo l'esigenza di esplorare, tra le altre epoche, anche quella del Rinascimento. Così ho portato avanti le mie ricerche, ho voluto ogni volta addentrarmi in un'estetica e particolare poetica, anche in base al mio stato d'animo del momento. Non ho quindi un vero e proprio autore preferito, pur nutrendo la massima stima per i grandissimi come Bach, Mozart e Beethoven. Vorrei dire anche un'altra cosa a riguardo, che forse sembrerà strana: attualmente sono più attratto da quei compositori che magari hanno scritto poco o niente per il pianoforte, per esempio Gustav Mahler, che per me è uno dei più grandi della storia. Con lui mi sento in totale sintonia, lo trovo diversissimo dagli altri dell'epoca, pur rientrando nella tradizione wagneriana è un mondo a se.

ADP: Anche nel genere liederistico ha scritto delle cose stupende.

GA: Assolutamente sì. Di Mahler credo di conoscere ogni singola nota, in casa ho le sue partiture complete, le ho studiate tutte quante e alcune sinfonie le ho anche arrangiate per pianoforte o per due pianoforti. Parliamo di tanti anni fa, quando ero ancora un giovinetto di sedici, diciotto anni. È un amore davvero profondo quello che mi ha lega a quest'autore, un trasporto spontaneo e non sollecitato da nessuno. Sicuramente i ripetuti ascolti fatti in casa, agevolati dal fatto che mio padre possedeva dischi di ogni genere, hanno avuto la loro parte, ne aveva davvero una gran quantità, compreso dei meravigliosi vinili di Mahler. Non mi ha affascinato tuttavia dalla tenera età, il colpo di fulmine avvenne durante i miei studi di composizione, non provocato tra l'altro da motivi scolastici. In Conservatorio vuoi o non vuoi studi un po' tutto però i maestri non ti spingono più di tanto ad addentrarti nelle partiture. Sono studi che ho condotto quindi prevalentemente da autodidatta, in senso lato. Analizzavo delle sue sinfonie gli incastri orchestrali, i colori, per cercare di carpire al massimo il suo modo di comporre. Quello che sento nei confronti della sua musica è così profondo che non riesco a esprimerlo verbalmente, è un qualcosa che supera l'aspetto tangibile della musica, portandomi in un mondo metafisico ricco di dolore, di passione, anche d'infelicità estrema in alcuni momenti. Lo trovo assolutamente incomprensibile ed è per questo che lo ritengo molto differente dagli altri, da Franck, ma anche dallo stesso Wagner.

ADP: Pure da Anton Bruckner, che è stato un suo quasi contemporaneo.

GA: Sicuramente mi piace molto anche lui, adoro le sue sinfonie ma Gustav Mahler mi dà qualcosa di più profondo, di maggiormente viscerale.

ADP: La stampa si esprime con grande favore circa la sua collaborazione con il violoncellista Giovanni Sollima. Come nasce quest'unione artistica?

GA: Nasce perché una ventina d'anni fa, quando il suo era un nome già affermato, anche se non quanto oggi, m'imbattei in un suo album della Sony intitolato "Works" che un amico mi aveva fatto ascoltare in automobile. Eravamo tra l'altro in una località stupenda, Palinuro, dove vedevamo il mare in un momento nel quale si era scatenata una tempesta nel suo bel mezzo, ma lontano da noi. Ricordo che mi apparve una scarica di fulmini che andavano tutti nelle acque e questa scena, associata con quella musica, mi colpì veramente tanto, a tal punto che il mio amico, anche lui musicista, mi disse: "Ma perché non ti metti in contatto con Giovanni, magari puoi suonare con lui?". E io gli risposi: "Ma no non esiste, figurati se lui considera una collaborazione con me. Come faccio a raggiungerlo?" Poi invece sono riuscito, tramite un altro amico musicista, a mettermi in contatto con sua sorella, Donatella Sollima, le parlai al telefono e lei a sua volta comunicò con Giovanni. Organizzammo allora una cena a Palermo, dove lo conobbi di persona. Questo è stato il mio approccio con lui, dal quale è nata un'amicizia, e solo più avanti abbiamo iniziato a collaborare; non da subito quindi. In realtà non ricordo nemmeno la prima volta in cui ci siamo esibiti in duo, so che abbiamo suonato insieme diecine e diecine di volte. Il nostro rapporto si è evoluto in maniera del tutto naturale, favorito da interessi comuni e un modo simile di sentire. Anche se abbiamo due caratteri molto diversi, c'è un qualcosa, un comune denominatore, una sorta di campo gravitazionale che ci coinvolge entrambi. La nostra collaborazione ha dato nel tempo dei bei frutti con delle sperimentazioni, delle trasmissioni fatte insieme. Tra pochi giorni terremo un concerto a Roma, in cui suoneremo praticamente tutte trascrizioni mie e sue di Igor Stravinskij, oltre ad alcune canzoni di gruppi "rock progressive" come i King Crimson, Gentle Giant, Area ed Emerson Lake & Palmer.

ADP: Constato con piacere che abbiamo gli stessi gusti e le stesse passioni musicali.

GA: Sì, trovo eccezionali gli ELP, assolutamente geniali! In questi gruppi hanno suonato veramente dei grandi musicisti, al di là di tutto e del divario che si è creato nei decenni con la distinzione tra musica pop e non pop, in cui c'è stato qualcuno che ha deciso cosa è bello e cosa è brutto. Sono idee fittizie che secondo me lasciano il tempo che trovano. Cosa si può dire su un capolavoro come The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd? Che è frutto di un'arte notevole, di una grandissima maestria musicale e una poetica del tutto originale.

 



ADP: Il critico Fabio Brisighelli ha detto riguardo a un vostro concerto: "Giovanni Sollima al violoncello e Giuseppe Andaloro al pianoforte hanno offerto una prova incandescente della loro tecnica applicata ai suoni, accompagnate da un'arte dell'improvvisazione calibrata di volta in volta sui brani che componevano il programma." Quali sono le maggiori difficoltà per un pianista classico nel cimentarsi con l'improvvisazione?

GA: Sono enormi difficoltà. Mi riesce difficile parlare per un'intera categoria di pianisti classici, però di norma questi hanno una difficoltà impressionante ad aprirsi ad altri generi che non siano quelli della cosiddetta musica classica. Eseguire ciò che non è scritto in partitura comporta per loro un blocco psicologico prima ancora che musicale. Tuttavia, bisogna anche dire che chi è abituato a leggere soltanto le partiture della storia della musica, che a me non piace definire classica, dovrebbe sforzarsi di andare al di là, ritrovando il piacere dell'improvvisazione. Una volta era assolutamente fondamentale che i musicisti sapessero improvvisare, mentre oggi, in realtà da più di cento anni a questa parte, si è verificata una netta separazione tra l'interprete che prende in prestito le partiture di un altro compositore, siano esse di Beethoven, Brahms o Mozart, e l'autore contemporaneo che si mette soltanto a scrivere e magari non è in grado di suonare ciò che scrive. Spero che questo modo di fare con il tempo venga cancellato. Giovanni Sollima è un musicista se vogliamo come quelli del passato poiché, come loro suona e allo stesso tempo compone per il proprio strumento, o anche per altri, essendo anche in grado di eseguire quello che mette su carta. Non solo quindi questi musicisti concepivano un'opera, ma sapevano anche realizzarla praticamente. Noi oggi dovremmo cercare di ritrovare questa cosa che ci manca. Personalmente, faccio fatica ad aprirmi completamente a questo "modus operandi", ma credo meno di tanti altri miei colleghi. Faccio un piccolo esempio: qualche settimana fa è morto il grande Franco Battiato. Il giorno successivo alla sua scomparsa avevo un recital a Milano e ho sentito l'esigenza di porgere un piccolo omaggio al maestro facendo l'accenno a un brano, l'Ombra della luce. Mi è venuto spontaneo farlo e devo dire che il pubblico ha molto apprezzato. Mi è anche capitato talvolta di proporre ai musicisti con cui collaboravo di eseguire dei brani in memoria di artisti scomparsi, ma il mio invito ha avuto in certi casi l'effetto di mandarli completamente nel panico. La stessa cosa ho proposto ieri a Giovanni, che invece è stato entusiasta dell'idea ritenendola assolutamente grandiosa; si è dichiarato subito disponibile a suonare due o tre brani o magari confezionare un medley, a dimostrazione di un'apertura mentale ben diversa. Questo per me è un grande stimolo perché lui è sicuramente molto più aperto di me in tal senso e perciò mi sta aiutando davvero tanto a esplorare nuovi generi e a non fermarmi esclusivamente al ruolo dell'interprete di partiture prese in prestito da altri compositori. Il nostro fine costante è quello di riuscire a comunicare la musica nella maniera più naturale possibile.

ADP: Ciò che più m'impressiona del suo pianismo è la determinazione, la stupenda legatura delle note affrontate in velocità, l'impeccabile tecnica e la potenza di suono che riesce a sprigionare sullo strumento. Questo mi dà il destro per chiederle quale importanza riserva alla tecnica e quale all'affinamento interpretativo.

GA: La tecnica è fondamentale, è la cosa che ci dev'essere a prescindere da tutto, senza di essa non si può pretendere da se stessi di poter solo suonare un pezzo musicale. Del resto arte e tecnica nel passato erano sinonimi, per i latini coincidevano nel termine "ars". Oggigiorno, parlando da osservatore esterno e senza voler criticare i miei colleghi o gli esecutori di qualsiasi altro strumento, noto che si può avere una tecnica folgorante, una precisione, agilità e atletismo incredibili, quasi inumani. Tuttavia, quando si tratta "solamente" di grande sfoggio tecnico, in cui non sento un contenuto, un bisogno di espressione, la voglia di andare oltre quello che si sta facendo, da persona esterna o da critico non posso dichiararmi soddisfatto. Non riesco a essere impressionato dalla bravura in quanto tale. Per questo credo che la tecnica sia basilare e assolutamente necessaria da una parte ma al contempo non deve mancare la forza interiore, il desiderio di andare oltre le note.

ADP: Cos'è per lei il carisma in musica, è un qualcosa che già si possiede a monte oppure lo si costruisce mattone su mattone?

GA: Bella domanda. Me lo chiedo anch'io ma non saprei dare una risposta precisa. Credo che ognuno di noi debba sforzarsi di trovare la maniera giusta per esprimere al meglio il proprio linguaggio, una cosa sulla quale sto lavorando, o meglio sto cercando di capire di volta in volta. In ogni mio concerto è come se partissi da zero, intraprendo un viaggio dentro me stesso, alla stregua di una psicoanalisi, perché quando suono non faccio altro che pensare a quello che sto sostenendo in quel momento. Compiendo delle analisi nel corso della mia esecuzione, cerco di comprendere come sto andando, tento di modulare l'espressione in base a quello che avverto in determinati frangenti. Da qui a parlare di carisma non saprei, non potrei in realtà darle una risposta risolutiva. Senza dubbio qualcuno ha un carisma innato, ci sono i cosiddetti animali da palcoscenico che sono nati con più talento nello stare sul palcoscenico. Dipende sempre da chi è poi all'esterno ad ascoltare perché c'è qualcuno che si lascia facilmente affatturare dalle movenze di chi sta sulla scena e altri, come me, che non ne sono tanto affascinati. Io preferisco concentrarmi sulla materia, su quello che mi provoca un certo modo di suonare, al di là dell'essere carismatico come esperienza esteriore. Per me magnetico è un pianista che magari non si muove affatto ma con due note, grazie a un notevole controllo sullo strumento, riesce a descrivere un viaggio che mi porta in chissà quale altro pianeta, a quali altitudini. A quel punto sono veramente affascinato, consapevole però che il mio metro di giudizio, nella fruizione di quella maniera di suonare o cantare, non è uguale a quello degli altri. Non tutti abbiamo gli stessi gusti, oggi forse va anche troppo il prototipo dell'animale da palcoscenico, facilone, ammiccante, che strizza l'occhio al pubblico e lo coccola. Io sono e rimango di altra scuola. Non voglio certo demonizzare quel tipo di esecutore, però preferisco quello più metafisico, esoterico, che si muove poco. Ciò non toglie che si possa essere grandi artisti sia con la forza di un carisma esteriore che senza di questo. Se pensiamo all'ascolto in disco, tu non vedi il musicista, hai veramente e finalmente soltanto il suono sul quale poterti concentrare, mentre in concerto c'è il fattore visivo, sei colpito da tante altre cose che vanno benissimo però non devono essere preponderanti. Noi facciamo musica e quindi è il suono a essere la cosa più importante. Essere carismatici con questo è di gran lunga più interessante, almeno per me.

ADP: Una partitura che tallona l'esecutore è una sorta di percorso obbligato, dov'è importante seguire un certo "modus operandi" per non tradire il compositore. Secondo lei maestro è possibile per un esecutore esprimere una sua creatività, magari nell'ambito di un'opera largamente conosciuta?

GA: Assolutamente sì, è possibile e doveroso. È vero che in questo caso incide anche la stratificazione della storia per quanto riguarda l'esecuzione. Faccio un esempio banale citando i Preludi di Chopin, le Ballate o gli Scherzi piuttosto che la "Moonlight Sonata" di Beethoven, suonata e registrata praticamente da tutti. Su queste opere si sono accumulate troppe stratificazioni, troppi pianisti le hanno suonate, come si fa oggigiorno ad approcciarle? A mio parere dimenticando tutto quello che c'è stato prima; bisogna conoscere un brano, averlo vissuto, però è anche necessario avere il coraggio di dire la propria su una composizione già sentita e risentita. La cosa da non fare in nessun modo è copiare il passato, ci dev'essere un'ispirazione costante, nella consapevolezza che l'anteriore ci ha dato tantissimo, almeno a me dà di più rispetto al presente o all'immediato trascorso. Dev'esserci la voglia di trovare una propria strada anche in partiture blasonate. Chiaramente parliamo di un argomento difficile da decifrare, quasi inspiegabile. Bisogna sempre trovare un proprio modo di vedere e interpretare, altrimenti si cade nel già sentito, cosa purtroppo facilissima a verificarsi. Spesso capita che non si ha più interesse di andare a sentire un esecutore in sala da concerto poiché si sa già che il programma è quello che hai ascoltato miliardi di volte. Io per primo non mi metto a comprare dischi con i Preludi di Chopin in quanto li ho già sentiti moltissime volte suonati da grandi interpreti. Sembra che non ci sia più nemmeno l'esigenza di mettersi alla prova con quel determinato brano od opera conosciutissimi, tuttavia, se uno sente di doverlo fare nulla vieta che non lo faccia. Io stesso non escludo la possibilità di dedicarmi a cose che ho già affrontato e registrato in precedenza, però non bisogna dimenticare che esiste anche tanto materiale sconosciuto o che non si suona abbastanza e pure musica che è stata quasi completamente dimenticata, cosa forse ancora più grave.  

ADP: Un'ultima domanda maestro: può anticiparci qualcosa dei suoi futuri progetti?

GA: In questo momento mi sto occupando del nuovo progetto "Dante", una sorta di percorso con musiche, la maggior parte quasi completamente trascritte da me, in cui gli autori si sono ispirati a Dante. Siccome questo è l'anno dantesco, ho voluto fare questo viaggio trascrivendo, per esempio, la Francesca da Rimini di Čajkovskij per il pianoforte. Insieme a questa prendo in considerazione anche altri brani, partendo dal Rinascimento italiano con i madrigali di Luca Marenzio, Luzzasco Luzzaschi per poi passare al romanticismo di Čajkovskij, Liszt e Rachmaninov. È un bel viaggio, fortemente connesso ai testi del grande Dante Alighieri e a materiali ispirati alla Divina Commedia. Altri propositi riguardano il duo formato da me e Giovanni Sollima. in seguito suonerò la Sagra della Primavera nell'ambito dell'anno stravinskijano, sempre trascritta da me. Ci saranno ovviamente programmi di più ordinaria amministrazione, COVID-19 permettendo, in Giappone, in Cina a Hong Kong, una prima con il Concerto di Ravel. Poi presenterò ancora, nel contesto del Gershwin Tour, la Rapsodia in blu e il Concerto in fa maggiore per pianoforte e orchestra in Italia a ottobre. Queste sono le cose che ho nell'immediato. Spero più in là di farmi venire delle altre idee. In realtà avrei voluto approfondire dei programmi che poi non ho più avuto modo di fare, uno di questi è legato per esempio al trentennale della morte di Freddie Mercury. Avevo in animo di produrre un album con miei arrangiamenti, che tra l'altro avevo già composto, trascritto per pianoforte e orchestra e suonato, dei Queen. Ricordo di aver presentato il concerto "Bohemian Fantasy" by Queen a Palazzo Medici Riccardi a Firenze, sia a luglio che ad agosto, per solista e orchestra sinfonica, con alcuni dei loro brani più noti. Poi ci sono tanti piccoli percorsi che mi accompagnano nel presente e si prolungheranno nell'immediato futuro. Quello che avverrà più avanti però non saprei dirlo, mi piacerebbe spingermi ancora oltre, continuando a sperimentare, trascrivere e perché no anche a comporre qualcosa, visto che sono fermo in tal senso da un po' troppi anni. Non escludo quindi che una vena creativa si potrà anche risvegliare in me. Me lo auguro.

 




Alfredo Di Pietro

Giugno 2021


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