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 PianoSofia - L'ineffabile non so che... minimieren


 

 




L'ineffabile non so che…

Dialogo con Luca Ciammarughi e Michele Piana.

Jean-François Antonioli, pianoforte.

Testi poetici letti da Nicola Ciammarughi




Ritorna nel 2021 la rassegna PianoSofia, in uno scenario che vede purtroppo la pandemia da COVID-19 non ancora del tutto risolta, a riproporci connessioni talvolta sottili tal'altra palesi tra musica e filosofia. Una relazione non di frequente investigata che questo festival ha il pregio di proporre al pubblico in tutta la sua densità di significati. Anche quest'anno è la Casa degli Artisti a farsi teatro dell'incontro tra esse, pur con qualche variazione logistica. Tutto sembra più grande poiché la scena non è più posta di lato a mezza sala, ma in fondo, così da far assomigliare la location a una tradizionale sala da concerto, oltre che agevolare la disposizione di un maggior numero di sedie. Una Casa che Silvia Lomazzi, ideatrice di PianoSofia con Luca Ciammarughi, definisce "seducente", uno spazio ideale per produrre cultura, un luogo dove si può condividere in modo collaborativo e non eristico l'arte e il pensiero, senza mercificare i rapporti. Non trascurato è l'aspetto conviviale: chi lo desidera potrà a fine concerto soffermarsi negli spazi della terrazza per delle raffinate degustazioni, a cura del bistrot della Casa degli Artisti. Da qualche tempo si è fatta strada la felice idea di una musica non asserragliata in un'esclusiva torre d'avorio, ma che scende nel quotidiano, offrendo pure un coinvolgimento che supera l'esibizione artistica della serata. PianoSofia fa sua questa visione e mette a disposizione del pubblico il pianoforte (quest'anno un Gran Coda Fazioli F 308) per delle esecuzioni estemporanee, così chi lo vuole potrà suonare dalle 21 alle 21.30.



Tocca al pianista svizzero Jean-François Antonioli onorare la parte musicale di questo primo appuntamento, è lui che ci delizia con la bellezza della musica francese, colta in un lasso temporale che va dal 1800 al 1900. Un programma che ci trasporta in un tempo sospeso, cairologico e non cronologico, dove succede qualcosa di speciale. Nella conversazione svoltasi tra Michele Piana, Luca Ciammarughi e Jean-François Antonioli aleggia la figura di Vladimir Jankélévitch, un filosofo che ha molto riflettuto sul tempo in musica. Non per caso in quest'occasione è stato invitato un matematico, Michele Piana, per parlare di musica. La cosa potrebbe sembrare stravagante in quanto comunemente si pensa che la scienza dei numeri poco abbia a che fare con l'arte musicale, ma in realtà così non poiché l'ambito che è stato esplorato fa parte di quella che Claude Debussy, uno dei compositori protagonisti della serata, chiamava una matematica misteriosa. Tale è l'appellativo che lui dava alla musica. Una matematica misteriosa che è tuttavia definibile con puntualità da parte dei musicisti come un linguaggio, ma allo stesso tempo contraddistinta dal suo essere ineffabile. Ed è proprio il tema dell'inesprimibile a essere cruciale nella riflessione di Vladimir Jankélévitch, il quale ha scritto nel 1961 un libro stimabilissimo da chi è musicista nel profondo, ma un po' meno amato dalla parte pedante della musicologia per il suo manifestarsi come poco sistematico, anzi antisistematico. Jankélévitch non era soltanto un filosofo ma anche un pianista e quindi tutto ciò di cui parlava lo poteva suonare, mettendo le mani in questa materia in qualità di pensatore anticonvenzionale, spesso tendente al paradossale.



Ci sono addirittura delle trasmissioni televisive in cui si dice che la filosofia non serve a niente o è quasi inutile. Da antisistematico convinto, affermava che non si può parlare di musica se non facendolo "musicalmente" e questa non sempre è logica, ma a volte è analogica. Siamo quindi di fronte a un concetto che prevede un rapporto di somiglianza tra gli elementi costitutivi di due entità, tale da far dedurre mentalmente un certo grado di somiglianza tra queste. Un pensiero quello del filosofo e musicologo francese che va in direzioni rabdomantiche, labirintiche, e così anche la sua scrittura. Ma per quale motivo siamo qui a parlare di musica se questa è ineffabile? Jankélévitch mette una distinzione tra l'ineffabile e l'indicibile. Mentre il secondo è legato alla morte, il primo è legato alla vita. Luca Ciammarughi chiarisce questo dualismo concettuale citando un passo dal libro di Jankélévitch "La musique et l'ineffable": "La maschera inespressiva che la musica si dona volentieri oggi, ricopriva dunque senza dubbio il proposito di esprimere l'inesprimibile all'infinito. La musica, diceva Debussy, è fatta per l'inesprimibile, precisiamo tuttavia: il mistero che questa ci trasmette non è l'inesprimibile sterile della morte, ma quello fecondo della vita, della libertà e dell'amore. Più brevemente, il mistero musicale non è l'indicibile ma l'ineffabile. È la notte nera della morte a essere indicibile perché è tenebra impenetrabile il disperante non essere e perché un muro invalicabile ci sbarra il suo mistero.



È indicibile in questo senso ciò di cui non c'è assolutamente nulla da dire e che rende l'uomo muto schiacciando la sua ragione. E l'ineffabile è tutto il contrario dell'inesprimibile poiché su di esso c'è infinitamente, interminabilmente da dire. Tale è l'insondabile mistero di Dio, tale quello dell'amore, che è il mistero poetico per eccellenza." Il filosofo con queste illuminanti parole chiarisce bene cosa intendesse per ineffabile, un qualcosa cioè di cui non possiamo parlare in termini logici, ma che è assolutamente tangibile quando ascoltiamo musica, in buona sostanza quello che lui chiama l'espressivo inespressivo e che ritrova moltissimo nella musica francese e russa. Questo tema ci rimanda a uno anche etico/politico, giustificato da un'ossessione: Jankélévitch, che era un ebreo-russo benché nato in Francia, aveva vissuto il nazismo e a un certo punto iniziò a rifiutare il mondo tedesco, dove imperava il pathos dell'espressività, preferendo la via più dolce della musica francese, di Fauré o Debussy, per esempio, che non per caso abbiamo ascoltato nel recital di Antonioli. Anche Michele Piana è convinto che la citazione dal libro di Jankélévitch sia molto efficace nel definire i termini. Mentre Ciammarughi la leggeva gli veniva in mente l'esordio della Terza notte di Valpurga di Karl Kraus, in cui l'autore dice che Adolf Hitler non gli faceva venire in mente niente; questo è da catalogarsi come indicibile, non certamente come ineffabile. Vladimir Jankélévitch ha avuto biograficamente non una ma due ossessioni, una è stata la Seconda guerra mondiale, nella quale ha combattuto sul serio.



Ha polemizzato con Sartre affermando che c'è una grande differenza tra impegnarsi e impegnarsi a impegnarsi, è stato anche molto toccato dall'olocausto, un'autentica tragedia per lui che aveva origini ebraiche. Suo padre tra l'altro fu il traduttore di Freud in Francia, una persona quindi importante anche da questo punto di vista. Questi aspetti biografici hanno in parte un ruolo nella musica dell'ineffabile e, in generale, nella sua visione della musica. Il suo libro inizia con delle domande inconsuete e molto dirette, si chiede cos'è la musica, se deve dire qualcosa o nulla e se deve avere un significato o non deve averlo. In realtà il filosofo dà un significato un po' morale, secondo Piana, a queste domande poiché pensa che la musica occidentale, soprattutto quella romantica tedesca, sia in qualche modo soggetta a quest'ossessione metaforica, vale a dire l'allegoria di voler significare sempre e comunque qualcosa, il logos innanzitutto. Jankélévitch parla esplicitamente di trasposizione di tragedie psicologiche, parlando della musica romantica tedesca, e Michele Piana è sempre stato convinto che lui alludesse al fatto che tali tragedie da psicologiche diventassero purtroppo reali. Il matematico ci confessa di non riuscire a passare una giornata senza ascoltare quella musica (la tedesca) e, per quanto s'impegni, non riesce a trovare nulla di nazista in essa. Il testo citato da Ciammarughi sta nel cuore del libro La musique et l'ineffable, quell'espressivo inespressivo che forse risolve quest'empasse semantica. Il filosofo ci dice inoltre che la musica crea epifanie, evocatrice di sentimenti, stati d'animo e aspetti significativi che senza lei non riusciremmo a trovare in noi stessi.



Si tratta di un concetto universalmente valido per tutta la musica, non solo per quella francese, anche se lui aveva per questa e la russa una passione sfrenata. Vladimir Jankélévitch, infatti, affermò: "La musica è dunque inespressiva non perché non esprime nulla, ma perché non esprime tale o tal'altro paesaggio privilegiato. È tale in quanto implica numerose possibilità d'interpretazione, tra le quali ci lascia scegliere". Trova allora spazio una libertà di rappresentazione che non ci costringe semanticamente in maniera totalitaria. A proposito del rapporto tra il filosofo e il mondo tedesco, Jean-François Antonioli ha raccontato a Luca Ciammarughi un aneddoto sulla biblioteca di Jankélévitch. Un giorno un tale filosofo che si era recato presso la sua abitazione, a Quai aux Fleurs, osservò che i libri di filosofia tedesca si trovavano in un posto irragiungibile, al più alto scaffale, accatastati in tal modo da far pensare che da qualche parte dovessero pur essere messi e che lui non li usava più. Il visitatore, incuriosito, gli chiese il perché di tale collocazione e Jankélévitch rispose che dopo la guerra non voleva più tornare a leggerli. Ciammarughi prosegue la dissertazione con alcune interessanti riflessioni, arricchite da addentellati storici, sulla Ballade di Fauré. Un lavoro sublime che, secondo alcuni studiosi, potrebbe rappresentare una di quelle frasi musicali cui si è ispirato Marcel Proust nella famosa "petite phrase", introduttiva dell'amore tra Charles Swann e Odette de Crécy ne À la recherche du temps perdu.



C'è una discussione ancora aperta in merito: alcuni pensano che sia una melodia tratta da una sonata di Camille Saint-Saëns, altri dalla Sonata di César Frank; tuttavia, una delle tesi più accreditate la fanno risalire proprio alla Ballade di Fauré, anche se Proust probabilmente non aveva in mente un tema preciso. Sono comunque state fatte delle considerazioni non peregrine a questo proposito perché, in effetti, le due figure di Fauré e Proust hanno molto in comune dal punto di vista della temporalità, ovverosia del modo di trattare il tempo in maniera onirica e assolutamente non lineare che ci riporta alla filosofia di Henri-Louis Bergson. Sulla Ballade il filosofo spende parole meravigliose, tanto da convincerlo a dire che non c'è bisogno di cercare il significato della musica se uno ha un pezzo così meraviglioso da ascoltare. Parla di desiderio di cose inesistenti. Si può certamente dire che Bergson sia stato per lui il filosofo d'elezione, anche in considerazione del fatto che gli ha dedicato un'importantissima biografia. Indubbiamente l'interesse per il tema del tempo è centrale nell'opera intellettuale di Jankélévitch, come ovviamente per Bergson e anche per Debussy. A proposito di Images, eseguite integralmente in questo primo appuntamento, parla di un'immagine bloccata in un film, ognuna racchiude la vita delle cose e in questo è molto proustiano. Davvero si può affermare che Bergson e Debussy siano stati un po' gli eroi della vita intellettuale di Jankélévitch, che tra l'altro ha scritto un libro il cui titolo (Debussy et le mystère) è stato tradotto in italiano con Debussy e il mistero, ma più propriamente sarebbe Debussy e il mistero dell'istante, Debussy et le mystère de l'instant, un testo che rivela una concezione quasi parmenidea, in cui la musica in certi momenti sembra veramente bloccare il tempo.



Su questo concetto ci sono stati svariati dibattiti tra i pianisti, anche dal punto di vista interpretativo; alcuni come Jean-Rodolphe Kars, grande interprete dei Preludi, hanno seguito maggiormente quella via decisamente focalizzata sull'essere e anche più sul divenire. E la musica di Debussy sembra a volte darci l'impressione di seguire il movimento della natura. Il compositore stesso lo afferma nei suoi scritti parlando del vento e dell'acqua come di una musica che plana sulla cima degli alberi, nelle Images possiamo osservare entrambi questi aspetti. "Nelle Images", dice Jean-François Antonioli "uno degli aspetti più importanti per l'esecutore è la padronanza del discorso nel tempo. Faccio un esempio: nell'inizio di Cloches à travers les feuilles una tecnica molto interessante è quella inerente all'ostinato di terzine, che potrebbe funzionare un po' come un ingranaggio. Anche in quella della direzione orchestrale è così: bisogna trovare qual è il perno attorno al quale gira l'insieme. Spesso Mozart, per esempio, mette l'ostinato nei secondi violini, in sedicesimi, e tutta l'orchestra deve accettare questa legge sino a quando appare qualcosa d'altro che prospetta un diverso principio di spostamento degli appoggi. Si osserva che nel brano citato di Debussy, dopo quest'ostinato che descrivevo come un meccanismo, poco a poco cambia il modo di evolvere passando da valori piccolissimi di terzine ad altri che somiglierebbero piuttosto a dei passi." Riflettendo sulla composizione del programma di stasera, vediamo due autori fortemente legati alla filosofia di Jankélévitch, Debussy e Fauré, ma ne abbiamo altri due che ne sono in parte slegati, Franck ed Emmanuel.



Il primo, belga, ha un piede ancora nel mondo tedesco poiché la struttura della sua composizione è molto meno "flou" delle francesi, certamente più costruita e a volte in un certo senso bachiana. Il secondo, invece, di cui viene presentata in prima esecuzione italiana la Sarabande dalla Sonatina N. 5, è sbilanciato sulla sensibilità francese, non a caso Antonioli lo ha posizionato tra Franck e Debussy. La ragione di questa sua inclinazione sta nel fatto, spiega il pianista, che Emmanuel studiò parallelamente a Debussy. Mentre il secondo era stato allievo di Ernest Guiraud, lui aveva studiato con Léo Delibes, anche se i due non andavano d'accordo (Delibes considerava il suo allievo un iconoclasta). Emmanuel ebbe un contatto con Debussy, come studente, e fu anche testimone di un dialogo avvenuto tra Guiraud e il giovane Debussy, questi spiegava perché non accettasse alcuni aspetti accademici della musica francese. Maurice Emmanuel fece allora una cosa per noi preziosissima: consegnò tutta la conversazione tra i due, dove si evince la preoccupazione di Debussy. Per Emmanuel furono molto importanti le sue dichiarazioni, quelle di un compositore che Saint-Saëns odiava e criticava veementemente, lo si percepisce anche da una sua lettera, dove dice che bisognava evitare a ogni costo che Debussy fosse eletto come membro dell'Académie e che una certa sua composizione era peggio del cubismo. A quel punto Emmanuel scrisse una bellissima lettera a Saint-Saëns in difesa di Debussy, dove spiegava perché per lui il compositore non fosse assolutamente un terrorista, come veniva da lui descritto.



Egli fu quindi un apostolo di Debussy e, senza assolutamente imitarlo, lo rispettò e lo amò, al contempo fu uno dei primi a scrivere un libro su César Frank. Su questo già esisteva il testo di Vincent d'Indy del 1906, ma Emmanuel fece nel 1930 una bella ricerca su Franck e, oltre a questo, indagò su chi fosse stato il suo maestro, cioè Antonín Reicha, compositore ceco sul quale scrisse un libro poco prima di morire. L'autore della Sarabande ci porta ancora, dice Luca Ciammarughi, verso una specie di antiretorica, da artista che aveva riscoperto la musica greca e, come altri che s'interessavano ai modi antichi, prende una via francese d'accesso al '900, come scrisse il grande musicologo Mario Bortolotto, staccata da quella tedesca. Nel succitato libro di Jankélévitch viene messo a fuoco pure il significato del termine "charme", che tutti noi sappiamo avere il significato di "fascino", ma per il musicologo è qualcosa di più. Lui parla di "charme bergamasque", dove nella parola bergamasque c'è anche il termine di "masque", una maschera che appunto ci riconduce a quell'espressivo inespressivo che avevamo già contemplato in precedenza. Dice il filosofo e musicologo francese che lo charme è assimilabile al sorriso o allo sguardo, essendo una cosa mentale, per cui non si sa né di cosa tratta né in cosa consista, nemmeno se addirittura consiste in qualcosa. Non è né nel soggetto né nell'oggetto ma passa da uno all'altro come un influsso. Questo è un concetto importante, che descrive un qualcosa di quasi indescrivibile, quello che in altri libri lui definisce "il non so che o quasi niente".



Conclude Michele Piana: "Il rapporto che c'è tra la musica e la natura nel mondo francese è davvero diverso da quello che esiste nel mondo tedesco, lo stesso avviene per il concetto del tempo. Dai francesi la natura è vista in modo non allegorico, come una cosa bella, interessante e charmant, cioè per quello che è e non per ciò che vuole significare è questo è un qualcosa di molto peculiare nella loro musica. Forse in qualcosa di Stravinskij riesco a vedere il medesimo aspetto. D'altra parte il grande compositore russo conosceva molto bene il mondo francese." Lo stesso Jankélévitch cita spesso Stravinskij, per esempio il suo Apollon Musagète. A fine dialogo l'attore Nicola Ciammarughi legge "Il desiderio di cose leggere", una meravigliosa poesia di Antonia Pozzi scritta nel 1934, la ripete due volte, la prima recitandola e la seconda cantandola. Si suggella così, tra la suggestione della poesia, l'avvincente dialogo tra Piana, Ciammarughi e Antonioli.




JEAN-FRANÇOIS ANTONIOLI
PIANISTA "INATTUALE"


Gabriel Fauré (1845 - 1924)
Ballade (1881)
Versione originale per pianoforte solo

César Frank (1822 - 1890)
Prélude, Choral et Fugue (1884)

Maurice Emmanuel (1862 - 1938)
Sarabande (1925)
Prima esecuzione italiana

Claude Debussy (1862 - 1918)
Images Première Série:
-Reflets dans l'eau
-Hommage à Rameau
-Mouvement

Deuxième Série:
-Cloches à travers les feuilles
-Et la lune descend sur le temple qui fut
-Poissons d'or




Jean-François Antonioli è un importante pianista e uomo di cultura. Svizzero originario del nord Italia, è nato a Losanna nel 1959. Tra i suoi maestri c'è stato inizialmente Fausto Zadra, un discepolo del leggendario Vincenzo Scaramuzza, poi si è perfezionato a Parigi con Pierre Sancan e più tardi con altri due maestri, Bruno Seidlhofer e Carlo Zecchi, che tanta importanza hanno avuto nel suo percorso artistico. Dotato di un pianismo raffinato ed elegante, viene subito notato e invitato a esibirsi come pianista, sia in recital che in orchestra, in più di venti paesi su quattro continenti, debuttando negli Stati Uniti nel 1991 con la National Symphony Orchestra di Washington. Da allora si è esibito in vari festival internazionali come quelli di Montreux-Vevey, Lucerna, l'Orpheum Soloists a Bad Ragaz, "Radio France" a Montpellier, il Festival della Gioventù al Konzerthaus di Vienna, Merano e Sorrento in Italia, Dubrovnik, Zadar e Varazdin in Croazia, il Beogradski Prolecni Pijanisticki Festival in Serbia, Enesco e Lipatti in Romania, Pecs Napok in Ungheria, Lanaudière e il Festival Estivo a Quebec in Canada, al "Festival of Arts" di Birmingham e quello di "Wolf Trap" a Washington. Non meno notevole è la sua produzione discografica, per le etichette Claves, Timpani e Musique Suisses, comprendente le opere di Arthur Honegger e di Jean Perrin, i 24 preludi di Debussy, delle opere di Busoni e di Joachim Raff per pianoforte e orchestra.



Un ragguardevole successo ha riscosso il suo primo disco, dedicato alle opere per pianoforte e orchestra di Franck Martin, che fu presto celebrato dal Grande Premio internazionale del Disco dell'Accademia Charles Cros a Parigi (1986), in seguito nominato tra i venti migliori dischi dell'anno, selezionati da cinquanta critici del mondo intero in vista dell'IRCA a New York. Antonioli è non solo pianista, ma anche direttore d'orchestra, attività che ha sviluppato a partire dal 1988. Dal 1993 al 2002 è direttore ospite permanente della Filarmonica di Timisoara, con la quale incide numerose registrazioni e s'impegna con tournée in diversi paesi d'Europa e in Brasile. Spesso assume contemporaneamente la direzione d'orchestra e la parte solistica al pianoforte, avviene soprattutto nel ciclo integrale dei 21 concerti di Mozart (qualche video è reperibile su YouTube), ma anche per quelli di Haydn, Bach e Chopin. Nell'aprile del 1995, all'Ateneo di Bucarest, l'Unesco e il Ministero rumeno dell'educazione gli assegna la medaglia Dinu Lipatti in segno di grande stima. Grazie a questa collaborazione la sua discografia s'infoltisce, con l'Orchestra Filarmonica di Lussenburgo pubblica nel 1997 un doppio album con l'opera sinfonica di Jean Cras, risultando anche vincitore del Grande Premio Internazionale del Disco dell'Accademia Charles Cros. Per quanto riguarda la sua attività didattica, Jean François Antonioli insegna pianoforte al Conservatorio di Losanna – Haute Ecole de Musique, ha tenuto delle Masterclass al "Conservatoire Royale" di Bruxelles, alla Facoltà di Musica dell'Università di Timisoara e anche in Italia, sull'Isola di San Giulio del lago d'Orta, poi all'Accademia di Musica di Sion, all'"European Piano Teachers Association Summer School" a Dubrovnik, all'Istituto Ribaupierre a Losanna e all' "Ecole Normale” di Parigi – Alfred Cortot per Paris Piano New York".



Senza contare che è stato Presidente di Giuria in diversi concorsi internazionali. A partire dal 1995, ha creato un seminario estivo sulla musica da concerto di Mozart per i giovani solisti con orchestra, in collaborazione con l'Università di Timisoara, al quale la Televisione Bayerischer Rundfunk di Munich dedica un documentario nel 1997. Nel novembre del 1999, Jean François Antonioli viene eletto membro dell'Accademia Centrale Europea della Scienza e dell'Arte. Ancora, il regista tedesco Walter Wehmeyer ha dedicato due film alla sua attività, diffusi su varie reti televisive europee: La vocazione dell'ascolto (2000) e Degli occhi che ascoltano (2002). in anni più recenti (2008) è uscita dalla casa discografica Timpani a Parigi l'opera integrale per pianoforte di Arthur Honegger, registrata su richiesta della figlia del compositore. La sua figura slanciata, il portamento nobile ed elegante, il tono pacato del suo eloquio sono tratti distintivi che troveremo espressi dal suo pianismo nel recital di questa serata. La Ballade Op. 19 di Gabriel Fauré, stasera proposta nella versione originale per pianoforte solo, fu inizialmente concepita come una serie di pagine indipendenti e solo in un periodo successivo assunse l'unitarietà che oggi gli riconosciamo, pur in un andamento rapsodico che prevede un Andante cantabile, un Allegro moderato (il fulcro centrale), Andante, Allegro, Andante, Allegro moderato. Come vediamo una composizione parecchio articolata e di variegati frangenti espressivi, con momenti anche piuttosto complessi nell'intrecciarsi di voci nella polifonia.



Dal punto di vista della sua indole, possiamo invece ravvisarne con chiarezza la fisionomia, come dice il critico Luigi Bellingardi riconoscibile: "... nell'evocazione dell'atmosfera d'un passato lontano, quasi d'antica leggenda, con il corollario di tratti impressionistici nei colori e nelle sfumature. Al riguardo, si ricorda che Fauré ebbe a confidare ad Alfred Cortot che questa Ballata aveva tratto ispirazione da una personale sua impressione di segno emozionale analogo a quello che aveva suggerito a Wagner l'evocazione del Mormorio della foresta." Sin dalle prime note di questa composizione, Antonioli appare molto ispirato, dotato di uno squisito senso del rubato che lui accompagna con significative variazioni dell'intensità sonora, quelle che comunemente vengono definita dinamica. È molto interessante la sua gestione per il fatto che questa non è mai frutto di una spettacolarità fine a se stessa (o peggio ancora di un eccentrico arbitrio), ma è in ogni occasione intimamente connessa con l'espressione che in quel momento la partitura richiede. Nell'iniziale Andante Cantabile c'è davvero il senso del canto, con le sue nuance, le inflessioni e i fremiti. Nell'Allegro moderato la dialettica da dolcemente contemplativa si fa più mossa, sublime il "dolce subito", dove i marosi paiono per un attimo acquietarsi. Le varie voci, la melodia che si snoda su un letto di ampie quartine, sono perfettamente intellegibili, come sempre lo è il tessuto polifonico ricostruito sulla tastiera da Antonioli. Incantevoli le argentine fioriture di note veloci e i trilli, prevalentemente nel registro superiore dello strumento, argento vivo per le orecchie, sciorinate con una libertà e sensibilità acutissime.



Se magari Jean-François Antonioli non colpisce subito l'ascoltatore, poco dopo questo si accorge di essere coinvolto in un sapiente incedere ritmico, estremamente solido e autorevole (come in definitiva il suo pianismo) dal quale si dipartono dei rubati celestiali che donano vita e colore alle melodie. Il giorno dopo il concerto io e il maestro abbiano intrattenuto una piacevole conversazione, dove lui ha citato una riflessione di Franz Liszt, secondo cui una composizione deve avere un tronco solido, da cui si dipartono flessuosi i rami. Nulla di più vero, se ascoltiamo la sua stupenda interpretazione. Nella monumentale composizione di César Frank ritroviamo quella olimpica compostezza, quella distinzione da gentleman di altri tempi che si riconosce nel brano di Gabriel Fauré. Nulla della personalità di un uomo, della sua formazione e indole, nasconde la tastiera e neanche questa volta tale regola fa eccezione. A queste qualità dobbiamo aggiungere nel brano di Frank una capacità d'introspezione rara a trovarsi, nella ieraticità del Corale in 4/4 e nella quasi interminabile serie di arpeggi che il nostro pianista varia sottilmente nell'espressione, così da fugare l'insorgenza di una certa monotonia, questo dopo aver esordito con il bellissimo Prelude, suonato con intensità e fantasia. Nel corso del recital emerge progressivamente la bella qualità di suono che Antonioli riesce a cavare dal Fazioli Gran Coda F 308, un timbro sempre corposo, ricco di armonici e, dove opportuno, impreziosito da lunghe risonanze che si sono liberate nell'aria della Casa degli Artisti.



Peccato per il rumore di fondo, acciottolio di stoviglie compreso, che ha abbastanza disturbato il concerto, tuttavia pazientemente sopportato da interprete e pubblico. Una composizione quella di Franck anch'essa piuttosto articolata, essendo composta da un Prélude - Moderato, Choral - Poco più lento, Poco Allegro e Fugue. I movimenti precedenti sembrano una preparazione alla complessa Fuga, che Antonioli esegue con notevole piglio virtuosistico sino all'apoteosi finale, dove emerge un pianismo brillante, tetragono alla fatica e imperioso. Il Fazioli alla fine sembra trasformarsi in un luminoso organo: è l'apoteosi di una composizione che narra il mondo poetico franckiano, intriso sin dalle fondamenta di un fervente misticismo e un'umanità che non teme confronti. Da un'atmosfera severa, contrita, si ascende progressivamente alla gioia spirituale del finale, dove appare la luce abbacinante della magnificazione. Il pianista mette in evidenza la struttura della Fuga, le voci interne e il suo rigore costruttivo, con grande nitidezza, pur consentendo all'afflato poetico di emergere appieno, in questo senso si rivela architetto e allo stesso tempo vate. Eseguita per la prima volta nel nostro paese, la Sarabande rappresenta il terzo movimento della Sonatine N. 5 "Alla Francese" Op. 22 di Maurice Emmanuel. Il suo carattere dolce e arioso forse contrasta con lo spirito della danza lenta di carattere solenne con accento sul secondo tempo. Nelle mani di Jean-François Antonioli diventa una vera perla dai mille riflessi iridescenti, emerge nella sua lettura una regalità particolare, nel ritmo cadenzato, in un'espressività che fa di tutto per penetrare in noi e non scivolar via con facilità.



Forte è l'elemento evocativo che si manifesta, con la tipica leggerezza francese. Andrebbero senz'altro riscoperte le Sei Sonatine per pianoforte che Emmanuel compose tra il 1893 e il 1926, composizioni brevi e multiformi che testimoniano l'evoluzione nel tempo della sua arte compositiva. La Quinta, dedicata a Robert Casadesus, si presenta in particolare come una suite francese ed è proprio con questo titolo che il compositore la adatterà per orchestra. Nell'ambito di un programma in gran parte francese, non poteva mancare Debussy. La scelta di suonare le due serie di Images ha consentito allo spettatore di rimanere all'interno di quella fascinazione temporale, di quell'ineffabile non so che, tema centrale della serata e così ben esaminato dai tre relatori. Nello stupendo "Reflets dans l'eau" l'inizio sembra confermare l'attitudine del pianista a un procedere sobrio e ben controllato, ma lui ci sorprende poco più avanti, quando illumina a giorno con il suo magnifico jeu-perlé i veloci ricami ascendenti e discendenti evocativi dei riflessi di luce sull'acqua, dalle piccole increspature che gradatamente si allargano a movimenti concentrici più ampi, tecnicamente resi con serie di accordi, cromatismi e arpeggi veloci quanto leggeri. Di grande suggestione è il momento in cui tutto sembra placarsi e si affaccia il "Lent (dans une sonorité harmonieuse et lointaine). Ed è in queste variazioni, ora sottili ora eclatanti, che si manifesta la grande raffinatezza, tutta francese in questo caso, del pianismo di Antonioli. Ho trovato in questo brano una squisita eleganza, insieme a una grande libertà di sviluppo.



Il discorso musicale procede con impeccabile stile, Antonioli in ogni occasione sfodera un'alta qualità di suono, che è sempre consistente e lussureggiante di armonici. Sono tuttavia persuaso che il vertice interpretativo in questa prima serie sia stato toccato con "Hommage à Rameau", il pezzo con cui Debussy rivela la sua ammirazione per il grande Rameau. "Sans rigueur" recita la partitura, chiave di volta di un'espressività volta alla libera meditazione. Ci troviamo di fronte a una pagina tra le più suggestive, dal tono composto, dove trova spazio l'introspezione qualche screziatura di malinconia. Il pianista svizzero la rende in maniera meravigliosa, mentre "Mouvement" gli dà il destro per esprimere la sua anima più virtuosistica. Un meccanismo ben oliato, regolare, fluido, rende in modo godibile e convincente l'insistente ripetizione di rapidissime terzine di semicrome, tra l'altro sempre in "ppp", palleggiate tra la mano destra e sinistra, e in certi punti, suonate da entrambe. Direi proprio che l'obiettivo di suonare "avec une légèreté fantasque mais précise" è stato perfettamente centrato. L'incantevole sinestesia musicale ritorna con la seconda serie, ad aprirla è "Cloches à travers les feuilles", dove l'immagine visiva delle foglie si unisce a quella uditiva delle campane, con il loro suono che ci raggiunge attraversando le fronde degli alberi. Si tratta di un brano che, dal punto di vista armonico, riecheggia il Gamelan giovanese, che tanto impressionò Debussy, qui ampiamente utilizzato nella scala pentatonica.



Segue "Et la lune descend sur le temple qui fut", dedicato all'amico Louis Laloy, purtroppo disturbato dai rumori di stoviglie che provenivano dall'adiacente Bistrot. "Lent - doux et sans rigueur" si legge all'inizio della partitura di un brano intriso di mistero, accompagnato dalla sperimentazione di soluzioni armoniche di stampo esotico. Lascio agli addetti ai lavori la loro analisi, mentre io semplicemente mi godo il suo incanto sonoro, il quale vuol essere la suggestiva rievocazione di un chiaro di luna, evanescente proprio grazie alla sapienza armonico/compositiva dell'autore francese. Il recital si conclude con "Poissons d'or", terzo e ultimo brano della Deuxième Série di Images. curiosa la sua scaturigine: un pannello giapponese laccato di nero e intarsiato con madreperla e oro, che raffigurava due pesci rossi, dai riflessi dorati, in un fiume stilizzato. Un manufatto che si trovava nello studio del compositore e che ora è esposto nel Museo Claude Debussy a Saint-Germain-en-Laye. Jean-François Antonioli ci concede un bis, una piccola trascrizione da lui realizzata del Tantum ergo di Gabriel Fauré, composizione in origine per tre voci femminili e organo. Un'ulteriore dimostrazione della sua raffinatissima arte, evocatrice d'immagini sonore che in questo recital ci sono apparse si diafane, soffuse e talvolta evanescenti, ma sempre suonate con un controllo assoluto dell'architettura e una chiarezza esemplare del tessuto melodico/armonico. Così come avviene in questo bis, dove le varie voci risultano perfettamente distinguibili nella loro individualità eppure così ben amalgamate nell'insieme.




Alfredo Di Pietro

Settembre 2021


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