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 Milano 14/04/2022 - Presentazione de L'aristocratico di Leningrado Riduci


 

 

14/04/2022, in una Milano pienamente primaverile, nella cornice del Teatro alla Scala, Ridotto dei Palchi "A. Toscanini", si è svolta la presentazione del libro "L'aristocratico di Leningrado - Viaggi tra musica, arte, cinema, letteratura, fotografia e cocktail" di Francesco Maria Colombo. Evento promosso dagli Amici della Scala e dalla casa editrice Ponte alle Grazie, con la partecipazione di Filippo Del Corno, Emilio Sala e lo stesso autore. Quali che siano i sentimenti innescati da quest'evento, appare subito chiaro che si tratta di un'iniziativa importante, così come lo è il libro di cui si prende cura. Una presentazione senz'altro utile per chi non ha ancora letto questo testo di quasi quattrocento pagine, ma anche per chi già lo conosce, che avrà potuto trarre vantaggio da un supplemento d'indagine e, soprattutto, dalla possibilità di leggerlo anche attraverso gli illustri occhi dei tre relatori presenti, pronti a svelare il fitto sottobosco di una fantasia cosmopolita che promana tutta la cultura, l'esperienza, il linguaggio e anche gli affetti dell'autore Francesco Maria Colombo. Del Corno afferma che L'Aristocratico è un libro ricchissimo innanzitutto di musica e, in omaggio a una delle forme in cui si esprime il pensiero musicale, ossia l'improvvisazione, dichiara che nessuno dei tre intervenuti ha preparato nulla. Nel corso della presentazione si è quindi proceduto seguendo quelle fresche, proteiformi possibilità che solo l'improvvisazione è in grado di dare, esternando le impressioni che questo testo ha suscitato.

 



Inizia subito con l'intenzione di svelare le carte, raccontando non tanto le sensazioni destate dalla lettura del libro, ma il suo articolato pensiero dopo la grande stupefazione che l'ha colpito. Il criterio di lettura innanzitutto: L'aristocratico è fatto di piccoli capitoli, apparentemente non legati l'uno all'altro ma lui l'ha percepito come se invece fosse un'opera unica, ordita con un solo filo conduttore, anche se, in realtà, ce ne sono tanti. Un elemento, probabilmente il più dirimente, viene suggerito dallo stesso autore ed è quello che, nonostante nei singoli capitoli non si parli esclusivamente di musica, pur tuttavia in ognuno c'è almeno un riferimento musicale, in alcuni casi molto presente e in altri appena accennato. Da musicista, Del Corno individua la sostanza aggregante che tiene unita la fantasmagoria d'immagini e ritratti contenuta nel libro, applicando una sorta di analisi quasi musicologica, o per meglio dire compositiva. Essendo lui stesso un compositore, si è sforzato di comprendere quale fosse la forma "musicale" del libro, nella convinzione che tutti ne hanno una, così come ogni brano di musica ha un'implicita forma narrativa. Ma anche in questo caso, come in altri, è l'autore stesso a sbrogliare la matassa di possibilità e impossibilità. Tra le tante caratteristiche de L'aristocratico c'è pure quella di essere seducente (direi la prima che si apprezza), riaffermata da Colombo e in qualche modo sviante non magari dalla verità, ma certamente dalla realtà tracciata dal filo conduttore.

 



Non è forse casuale se alla fine del libro si fa riferimento al grande capolavoro schumanniano Papillons Op. 2, dove il lettore viene messo sull'avviso di un processo d'induzione all'incantesimo letterario in forma quasi aforismatica. Si tratta tuttavia di "aforismi" dal notevole sviluppo, più vicini (e questa è una mia opinione) all'elzeviro da terza pagina che al motto fulminante. Una serie di "étincelles" che si librano nell'aria come delle meravigliose farfalle. Emerge allora un'altra idea, una chiave di lettura se vogliamo alternativa ma sempre attinente al mondo della musica: il tema con variazioni, che ne L'aristocratico Del Corno ipotizza come variazioni senza tema. L'arma della seduzione brandita dall'autore può allora portarci lontano dalla verità del cammino, poiché la forma utilizzata per scrivere questo libro, a parere del relatore, è appunto quella del tema con variazioni o, ancora meglio, delle variazioni senza tema. Un flusso discorsivo evidente ma la cui origine è ignota, un itinerario del quale è molto difficile individuare univocamente il punto di partenza. Il tema c'è, non potrebbe essere diversamente, ma è nascosto e i sessanta capitoli altro non sono che delle variazioni tenute insieme da un profondo legante strutturale, il quale fa in modo che il testo possa e debba essere letto come un "unicum" e non spigolato qua e là come una raccolta di aforismi. Un motivo non dichiaratamente enunciato stimola naturalmente alla sua ricerca, ma Del Corno su questo non si sbilancia, non ha l'intenzione di svelarlo subito, altrimenti metà del gioco retorico che desidera costruire fallirebbe.

 



Rimanda perciò tale disvelamento a una prossima occasione, provocando nel pubblico un effetto "suspense"; rimane comunque il fermo convincimento di una struttura compositiva profondamente unitaria, la cui apparente conformazione caleidoscopica è argomento che desidera condividere con Sala e Colombo, Invitati a uno stimolante "ludus" intellettuale. Quasi un gioco al rimpiattino dove l'elemento da stanare è il tema, giustificato dal tentativo di dare una lettura strutturale a questa costruzione fantasmagorica. Dal canto suo, Emilio Sala dichiara di non conoscere a fondo Francesco Maria Colombo. L'ha incontrato due volte nella sua vita e in entrambe gli ha fatto una grande impressione. Conosciuto per la prima volta a Spoleto nel corso di un convegno dedicato a Giancarlo Menotti, compositore molto ammirato da Colombo, rammenta di averne lungamente parlato con lui. Il secondo contatto avvenne a Parma nel 2013, in occasione del consueto anniversario verdiano; da appassionatissimo di fotografia, Colombo aveva in progetto di fare un libro d'immagini dedicate al grande compositore (Verdi architetto - Allemandi 2013). Sala riconobbe in lui una personalità eclettica e anche un po' imprendibile, irrequieta, alla costante scoperta di nuove conoscenze ed emozioni. Una decina di giorni fa era nel suo studio e dalla portineria gli arriva questo ponderoso tomo. Lo apre e si mette a leggerlo, anche se era piuttosto indaffarato, letteralmente divorandolo nel giro di 33 ore (su questo è molto preciso). Il giorno dopo Colombo telefona chiedendogli se avesse ricevuto il libro e se gli andasse di presentarlo. Sala aveva trovato il libro molto affascinante, rimanendo stupito del fatto che avesse chiamato lui, cioè un musicologo accademico, per parlare di un libro veramente poco adatto a essere presentato da uno come lui.

 



É stata una bella sorpresa, una felice congiuntura la chiama; freschissimo di lettura ha accettato entusiasticamente. Si dichiara molto diverso da Francesco Maria, ma ciò che è importante in questa sede è il giudizio sul libro, che sente di valutare pensando al rapporto dell'autore con la fotografia (in effetti, ogni capitolo è preceduto da un'immagine, molto spesso fotografica). Non sta a evocare teorici della fotografia, che peraltro adora, in ottimo accordo con Colombo, ma gli piace citare grandi come Roland Barthes e Walter Benjamin. É un libro che considera "fotografico" in un senso molto preciso, le variazioni che lo compongono vogliono cogliere un determinato attimo, fermare un momento in una forma la cui dominante è comunque la scrittura, è questa a dover fare da navigatore in un percorso che tutto attraversa. Emerge allora il dato esperienziale di Francesco Maria Colombo, il quale vive come fosse un flaneur (passeggiatore svagato e a momenti curioso) postmoderno attraversato da esperienze tutte estetiche. Si configura una specie di analogia labirintica che a volte potrebbe sembrare anche casuale, ma che poi, retroattivamente, si rivela molto più precisa di quello che ha una prima lettura potrebbe sembrare. L'autore si lascia trasportare da quelle che potrebbero sembrare delle bolle di sapone. L'aristocratico di Leningrado, afferma Sala, è un libro allo stato gassoso, imprendibile, nemmeno allo stato liquido. Dentro ogni bolla c'è un piccolo segreto che tu cogli e questa non c'è più. Ciascun capitoletto scaturisce da un'occasione visiva, che è un'immagine, e poi getta un ponte verso un collegamento musicale, tanto più fedele alla struttura del libro quanto più l'autore lo coglie in forma ritardata.

 



Tutti i capitoli che gli sono piaciuti di più, che lo hanno più colpito, rivelano l'"analogon" musicale quasi come una coda destinata a illuminare l'intero percorso. L'aristocratico ha il valore di un testo intermediario, che pur avendo adottato la scrittura in qualità di sua forma dominante, una scrittura raffinatissima, come l'autore sa fare, si presenta ricolmo di "delicatessen", dove si usmano profumi distillati con un alambicco molto sofisticato e incanalati nella tradizione di uno squisito essaismo. L'autore però forse è troppo snob per offrire un'opera che sia "soltanto" raffinata. In realtà questa è intermediale, volta a prendere in considerazione le esperienze sedimentate nei più diversi ambiti. Entra in gioco il suo essere stato direttore d'orchestra, quindi la musica per lui non è solamente una composizione ma un dato performativo da cogliere in un momento preciso del suo manifestarsi, molto legato anche alla dimensione percettiva. Nell'opera di attraversamento di questi diversi "media" c'è tantissimo cinema, interpretato con una vibratile e spiccata sensibilità per la dimensione visiva in tutte le sue forme, non solo fotografica, anche se naturalmente si fa spessissimo riferimento a questa. Traspare una "Popular Culture" pregustata quasi con edonismo. Non si tratta di un piacere perverso ma di una dimensione nella quale Colombo vive in un modo del tutto naturale. Parliamo d'icone della cultura di massa, analizzate con strumenti d'indagine esattamente come un direttore d'orchestra farebbe con una partitura. Nell'ambito cinematografico prende le distanze da certi cinefili, secondo i quali dopo "La dolce vita" il cinema è morto. No, lui continua le sue scorribande anche nella contemporaneità emergente, rivelandosi per questo una persona piena di curiosità e vitalità intellettuale.

 

Filippo Del Corno

Tra le varie ed eventuali, Emilio Sala, per fare da pendant a quanto detto da Del Corno, propone a sorpresa un'altra definizione possibile de L'aristocratico: un libro d'istantanee, di momenti fissati non attraverso la scrittura ma per mezzo di un gioco intermediale, fatto sulla base dei numerosi percorsi trasversali che animano la vita di Francesco Maria Colombo. Colore dominante è la pulsionalità più che l'affettivività, poiché questo, come detto, è un libro allo stato gassoso ma anche in un un continuo stato di ebollizione, dove si avverte la ricchezza del sostrato passionale che anima una prosa particolarmente affascinante e anche arricchente nella sua apparente fatuità. Un tomo fatto di piccole ostentazioni, di virtuosismi, d'immagini tralucenti da ampie finestre, costruito con l'esprit de géométrie. Ma l'autore, forse a sorpresa, smentisce entrambe queste ipotesi, dicendo chiaro e tondo che L'aristocratico di Leningrado non è stato concepito come delle variazioni senza tema oppure come raccolta d'istantanee. Il libro non appartiene mai a chi lo scrive ma a chi legge e chi lo stila scopre tante cose di sé, che non conosceva, attraverso il filtro dell'altrui lettura. Una cosa che avviene anche con la musica, la quale si traduce e prende vita solo attraverso la sensibilità di chi la interpreta, portandola poi a compiutezza e donandola agli altri. Chiarisce la perplessità di Sala sul perché fosse stato scelto lui per la presentazione. Intanto perché l'autore considera entrambi i relatori che lo accompagnano come due personalità culturali per le quali si può essere soltanto essere onorati. Scegliendo loro, confessa al folto pubblico, ha cercato l'alibi dell'Accademia, lui che si ritiene totalmente non accademico o addirittura anti accademico.

 



Ha voluto seguire delle strade completamente sue, del tutto libere, talvolta folli e anche autodistruttive. Ha fatto tante cose nella vita e se ne avesse fatta magari una sola, se a diciott'anni avesse subito deciso di fare il Bartender, l'avrebbe fatto sicuramente molto meglio di come riesce adesso. Però lui così è fatto e questo libro è la sintesi delle tante cose che ha vissuto, se non l'emblema più limpido della sua rimarchevole ecletticità. Affranca da eventuali nebbiosità la scelta del titolo, L'aristocratico di Leningrado, che è stato ripreso da quello di un capitolo dedicato a una delle personalità che più lo hanno colpito, sia per un episodio capitatogli in vita, sia perché si è trovato ad avere a che fare con la sua figura per ragioni professionali, studiandolo e apprezzandolo nell'esecuzioni che ci ha lasciato. Era Yevgeny Mravinsky, direttore della Filarmonica di Leningrado, un artista che ha perfettamente incarnato l'epopea russa, dalla Russia zarista al regime sovietico. Intanto ha dato questo titolo perché gli piaceva la copertina del libro, in secondo luogo perché la sua figura coincide con una struttura letteraria che tiene sempre in alta considerazione la storia. Va quindi al di là di una concezione estetica della narrazione, ma investe la dimensione del vissuto nella sua multiformità e portata etica, spesso dolorosa e drammatica. É vero che tante storie di questo libro si consumano nel segno della contemplazione di cose belle, ma è altrettanto evidente che non poche sono proiettate verso il sofferenza e la tragedia.

 

Francesco Maria Colombo

Molte parlano della categoria che Hans Mayer in un celebre saggio chiamò "i diversi", individui che per una curiosa qualificazione negativa attribuitagli da alcune categorie di persone, si sono trovate a passare la loro vita nella sofferenza. Un esempio? I capitoli dedicati a due personaggi che hanno vissuto delle vite e morti parallele. Uno riguarda il poeta cubano Reinaldo Arenas e l'altro il pianista russo Jurij Egorov. Queste due figure sono vissute nel '900 in due parti diverse del mondo, non si sono mai incontrate, non hanno mai saputo dell'esistenza l'una dell'altra, ma entrambe sono state perseguitate da un regime, la prima da quello di Castro mentre la seconda da quello dell'Unione Sovietica di Breznev. Hanno vissuto la condanna della condizione, comune a tutti e due, dell'omosessualità, che non era permessa nella Cuba di Castro né consentita (o mal tollerata) nell'Unione Sovietica. Entrambi sono scappati, uno a Miami e l'altro ad Amsterdam, e, una volta conquistata la libertà, si sono trovati a fare i conti con un disagio ancor più grande: l'AIDS, terribile malattia che li ha condotti alla morte. Questo per dire che L'aristocratico non è un libro che parla solo di farfalle. Un altro frangente che li lega è la scelta di porre fine alla vita, uno con il suicidio assistito e l'altro con l'eutanasia. Ed ecco che tra le pieghe di questa particolareggiata presentazione milanese fa capolino l'amore dell'autore per il Novecento, un secolo che lui ha voluto omaggiare nel segno del cinema, della fotografia, oltre che per l'affezione per l'America, di cui c'è molto in queste pagine. Sottolinea che la cultura di massa prima del '900 semplicemente non esisteva.

 

Emilio Sala

Non si nega certo la componente estetica che impreziosisce queste pagine, è vero che a Francesco Maria Colombo piacciono tante belle cose che lui cerca semplicemente di raccontare per come l'ha incontrate e conosciute. Sono tante, favorite dalla grande libertà che ha sempre avuto di seguire i suoi percorsi favoriti. Eppure questa dimensione estetica non coincide con la persona che ha scritto il libro, ma piuttosto con la rappresentazione che ha deciso di dare attraverso un'icastica codificazione stilistica. Lui stesso tutto si definirebbe fuorché un esteta, probabilmente l'ambito "decorativo" è uno di quelli che gli interessano meno o cui attribuisce minor valore. Apprezza le persone seguendo criteri che vanno totalmente al di là delle loro conoscenze, della loro profondità culturale e dalle loro esperienze estetiche. Non è d'altronde cosa di poco conto: nel momento in cui si deve pianificare la stesura di un'opera letteraria, bisogna necessariamente affrontare il problema della codifica stilistica, del confezionamento di un "prodotto". É in quel frangente che l'estetica diventa un criterio strutturale. Ne L'aristocratico l'autore è una presenza residente, potremmo dire che c'è ma non si vede, oggetto di una rappresentazione insieme con altri oggetti che il lettore può scorrere in una fantastica carrellata di musica, arte, cinema, letteratura, fotografia e cocktail (ma, dice Colombo, bisognerebbe aggiungere anche qualcos'altro). Al di là dell'esperienze vissute in questi ambiti, il "non tema", quello che secondo Del Corno non viene enunciato ma genera la serie di variazioni (esattamente sessanta, il doppio delle Goldberg bachiane) sono le "memoires". La memoria genera dolore, talvolta risentimento, spesso una disincantata malinconia e, nel libro di Colombo, soprattutto amore verso la conoscenza.

 



Lo fa con l'utensile della rappresentazione, perciò l'oggettivazione, la separazione. Abilissimo nel maneggiare il bulino, tornisce in modo incantevole cose di grande sostanza, carne viva sanguinante ma anche olimpica bellezza, contempla un qualcosa destinato a viaggiare al di fuori di lui, della sua esperienza e della sua vita, nella nostra direzione. Con tutta probabilità è rimasto lui per primo sorpreso di questa presentazione, ipotizzabile "d'ufficio", di fronte alla calorosa partecipazione di pubblico. Pensava di non dire assolutamente niente, non si è preparato ma ha accolto le suggestioni che gli sono state somministrate dai suoi due compagni relatori, dicendo le cose così come gli sono venute in mente. Ma non è L'aristocratico il suo esordio in letteratura come saggista/romanziere. Qualche anno fa ha scritto un libro, sempre per l'editore Ponte alle Grazie, che si chiamava "Il tuo sguardo nero", un romanzo-saggio dalla struttura complessa nel quale si parlava della storia di due poeti francesi alla fine dell'Ottocento, Pierre Louis e Marie de Régnier, diventati amanti. Pierre fece delle fotografie meravigliose di Marie. Una vicenda certamente interessante, ma principalmente servita all'autore per raccontarne un'altra, legata al tema dell'immagine, dell'identità, del tempo, del rapporto fra l'identità e la permanenza così com'è eternata dalla fotografia. Particolare scabroso: Pierre Louis aveva fotografato Marie nuda da ragazza e quelle immagini diventarono poi quasi un caso poliziesco in Francia. Tuttavia, le relazioni che si allacciano tra i temi dell'identità, della memoria e della fotografia erano tutte vissute all'interno di una codificazione culturale molto precisa, divenuta tema centrale nell'opera di Walter Benjamin, filosofo, scrittore, critico letterario e traduttore tedesco di grande importanza nel Novecento.

 

Anton Giulio Onofri

Colombo tiene a ribadire (e questa potrebbe essere una cogente chiave di lettura de L'aristocratico) che ogni autore è sino a un certo punto padrone della propria opera; una riflessione di sapore beniano. In verità, tutto sembra ruotare intorno al faro intellettuale del pensiero di Benjamin e al concetto di "Wiederspiegelung", il rispecchiarsi dell'opera letteraria su se stessa, come commento e riflessione sulla letteratura stessa. Possiamo quindi considerare reale, in quella varietà d'ipotesi critiche che è segno inequivocabile della vitalità e imponderabilità di questo libro, il quale si sottrae di fatto a ogni obbligante classificazione, il riferirsi alla figura di Walter Benjamin. Solo che l'autore se n'è accorto quando aveva già finito il libro e quando la sua editor Laura De Tomasi ha stabilito con lui di cosa parlare nel risvolto di copertina. Lei ha avuto come un'illuminazione: "Quello di cui parli mi fa pensare a un'altra parola chiave della filosofia di Benjamin, cioè alle costellazioni", ed è effettivamente questo che Colombo ha ritrovato nel suo libro, dove ha inseguito tanti capricci, tanti viaggi attraverso magari delle suggestioni o delle fascinazioni estemporanee nella musica, nell'arte, nel cinema, nella letteratura, nei cocktail, nella fotografia. Nel suo "Opus", senza che facesse niente d'intenzionale per sovraimporle, tutte queste cose si sono radunate davanti alla sua immaginazione, conformandosi in costellazioni e perciò offrendo dei criteri di riconoscibilità, di attribuzione di senso, favorendo dei collegamenti che prima di entrarci con la parola e con la scrittura non vedeva.

 



In questo testo, a quanto pare destinato a sollecitare la curiosità del lettore e liberare la fantasia dei critici, emerge un altro tema, poco appariscente ma ben presente, quello dell'assoluta unità della cultura, non intesa come coacervo di discipline artistiche, ma come costellazione di esperienze, di modi dell'essere, dell'uomo in determinati ambiti semantici e culturali. Dicesi costellazione ognuno degli ottantotto raggruppamenti apparenti in cui sono state suddivise le stelle sulla sfera celeste, in buona sostanza un qualcosa che suggerisce lontananze sideree, peccato che nulla sia più in grado di essere vicino alla nostra umanità come quelle presenti ne L'aristocratico. La grande varietà degli argomenti trattati può dare l'impressione di essere al cospetto di un testo un po' divagante, che racconta di tante cose curiose, divertenti, e anche irriverenti (vedi capitolo su Grigórij Raspútin). Si narra della tragica morte della più famosa prostituta tedesca che, povera ragazza, si chiamava Rosemarie Nitribitt e fu trovata con la testa spaccata nel suo appartamento di Düsseldorf. Ne seguì un caso giudiziario criminologico che allora destò grande clamore. Avvenimenti anche parecchio curiosi, conosciuti da pochi e capitati per caso all'attenzione di Colombo. Lui si è appassionato al caso di Rosemarie leggendo un libro tedesco degli anni '50, ha poi scoperto che nel cinema erano stati girati due film molto importanti sulla vicenda, uno con Nadia Teller, meravigliosa attrice tedesca, le più belle gambe del cinema tedesco dopo quelle di Marlene Dietrich.

 



Poi c'è ne un altro degli anni 90 che parla sempre della stessa storia e la cui colonna sonora è ripresa da La traviata di Verdi, come come La traviata di Verdi è l'opera che va ad ascoltare la più celebre prostituta della storia del cinema, cioè Pretty Woman, impersonata da Julia Roberts. Le cose parlano da sole e sono davvero tutte collegate come le stelle nel cielo, basta osservarle per intravedere le storie che recano in sé. Sono queste che dettano la loro geometria, la loro strutturazione, la loro morfologia complessa ma dotata di un senso determinato. Francesco Maria Colombo, alle prese con l'immensità del firmamento, si dichiara un astronomo dilettante che si avventura all'interno di queste costellazioni, in verità lui si dichiara un "dilettante" in tutto quello che fa o ha fatto. Ovviamente prendo questa auto-valutazione nel suo senso più nobile ed elevato, ché lui di professionalità ne ha da vendere, intesa come meticolosa cura e perfezione del suo operato. Un uomo che si diletta della bellezza di quello che vede, e, soprattutto, più che di questa del fatto che intuisce una misteriosa attribuzione di senso alle nostre esperienze. Bisogna riconoscergli la virtù della generosità: non è molto frequente incontrare uno scrittore così prodigo nello spiegare tutti gli aspetti presenti nel suo libro, nel fornire differenti chiavi di lettura, estremamente utili e preziose per entrare in profonda sintonia con L'aristocratico di Leningrado. A un certo punto Filippo Del Corno, impegnato nella ricerca di quel famoso tema generatore di variazioni, non un motivo in senso generico ma che fosse ben circostanziato, alla fine ripiega su un motto, una frase di senso compiuto forse ignota allo stesso autore, nascosta in un libro di non grande diffusione, tra l'altro uscito da poco, che è "A VIVA VOCE – Conversazioni con i miei allievi" di Paolo Castaldi, pubblicato da mudima, una meravigliosa silloge di appunti e, in certi casi, dei veri e propri saggi.

 



Questa è la riflessione che più gli è sembrata idonea a definire il tema nel quale si può inquadrare L'aristocratico e il suo svilupparsi, appunto, come variazioni senza tema: "E di questa molteplicità d'intendimenti o di comprensioni siamo capaci soltanto noi. Per questo sappiamo intendere e gustare Stockhausen, Messiaen, Strauss, Chopin, Bach. Constatiamo la nostra facoltà di cortocircuitare idee, forme e sentimenti lontanissimi l'uno dall'altro, capacità tipica d'un genere d'uomo che si potrebbe chiamare plurale." Ed ecco venuto fuori il tanto anelato "tema" che, forse inconsapevolmente, Colombo ha escogitato per inanellare le sessanta variazioni, concentradosi soprattutto su due aspetti, ovverosia le due precise determinazioni che Castaldi mette in questa frase. Innanzitutto il principio che il tempo può essere interpretato e vissuto in forma diacronica (quella alla quale siamo più abituati), vale a dire una sequela di eventi che si succedono uno dopo l'altro, o sincronica, dove gli eventi accadono contemporaneamente sullo stesso piano. Questa gli pare il giusto grimaldello per aprire un panorama fatto di assonanze e connessioni che sono lontanissime tra loro. Leggere il tempo in maniera sincronica è una delle più evidenti qualità che ha, secondo Del Corno, la scrittura di Francesco Maria Colombo. Con questa potente risorsa riesce a cortocircuitare un film molto popolare come Pretty Woman con una storia vera, autentica e tragica come quella del terribile destino cui andò incontro la prostituta tedesca Nitribitt. In un gioco di fitti rimandi emerge allora il valore della pluralità, il fatto che il genio letterario è proprio quello in grado di creare connessioni tra fatti, sentimenti, forme e idee molto lontane tra loro.

 



In questo processo di creazione viene abolito il principio gerarchico tra i diversi modi in cui tali elementi si manifestano, ne consegue la capacità di cogliere il significato più profondo del vissuto, favorito dalla chiave della pluralità nell'approccio alla conoscenza. Noi oggi diamo un po' per scontato questo processo dell'intelletto, ma in realtà è una conquista molto preziosa e al contempo parecchio fragile che l'umanità ha fatto in certi periodi. Nella storia del mondo ci sono lunghissimi secoli e, oggi, territori sconfinati dal punto di vista geografico e geopolitico che non contemplano la pluralità, anzi al contrario l'avversano, tendono a sopprimerla. L'aristocratico allora mostra il suo valore più attuale nel parlare prevalentemente, se non esclusivamente, del '900, forte della capacità di leggere quel secolo in maniera plurale. Di rappresentare una specificità di lettura del molteplice che, di fatto, non è una dimensione data per sempre nell'esperienza dell'uomo, nè dal punto di vista cronologico nè da quello geografico e geopolitico. L'identificazione di quest'atteggiamento plurale con quello che tendenzialmente noi definiamo come occidentale o europeo è un paradosso, poiché molto di questa pluralità europea si è vissuta e si vive negli Stati Uniti d'America, che in tutta evidenza non sono un paese europeo. Un'abilità che pone Colombo in una condizione di vantaggio, consapevole di riuscire a cogliere nelle cose il loro valore più autentico. Senza dimenticare che la parola molteplicità è uno dei "Six Memos for the next Millennium" indicati da Italo Calvino in quella meravigliosa conferenza che tenne ad Harward nel 1984, poi pubblicata con il titolo di "Lezioni americane".

 



Dei sei valori che alla fine del '900 Calvino ci consegnò per il prossimo millennio, indicandoli come una frontiera d'orizzonte del secolo che stiamo vivendo adesso (e che il grande scrittore purtroppo non ha vissuto essendo scomparso prima), quello della "molteplicità" è cruciale. É su questo che gli piacerebbe ancora una volta sollecitare il pensiero e le idee dell'autore, giusto per discriminare se l'approccio all'elemento della molteplicità sia non solo di natura poetica ma anche etica, se non addirittura squisitamente politica. Colombo citava il pregnante caso dei due artisti perseguitati da due regimi, i quali non hanno potuto vivere la loro esperienza in una prospettiva, appunto, di rispetto della molteplicità, andando incontro a un esito per loro tragico. La storia dell'umanità ci consente di rileggere i momenti  più tragici che il genere umano attraversa sotto la luce di una sconsiderata negazione della possibilità a un "modus vivendi" molteplice e plurale. La conseguenza diretta del lucido discorso portato avanti dai relatori è l'accensione di un desiderio, che non è soltanto quello di approfondire le tante molle e suggestioni presenti ne L'aristocratico. Molti dei contenuti scandagliati è immaginabile siano sconosciuti a chi legge. Lo stesso Del Corno non ha difficoltà a confessare che molte cose gli erano ignote sino al momento in cui le leggeva, facendo nascere in lui il desiderio di approfondirle. Rimane comunque fortissimo il desiderio di preservare quest'umanità onnicomprensiva, che l'autore incarna in maniera così forte, come elemento non stanziale della storia, ma una conquista in bilico, che corre il pericolo di essere sopraffatta.

 



Tiene a chiarire l'"artifex" del libro, che in questo la dimensione di critica politica o etica in senso stretto non vengono quasi mai indagate nella loro specificità, ma è piuttosto il tema dell'umanesimo a stargli a cuore. Lo è come luogo d'incontro di variegate esperienze e pure come tensione verso quel territorio di unificazione del sentire umano. Il '900 ha affrontato questo tema in maniera tragica. In altra parte di questa succosa presentazione si disquisiva della differenza tra la cultura europea e quella americana. Ci sono tanti capitoli di questo libro che parlano di emigrati a causa della diaspora negli anni '30 della cultura europea in America. Un solo, grande esempio, è la figura di Max Reinhardt, il più famoso regista di teatro nella prima metà del Novecento in Germania, promotore insieme con Strauss, von Hofmannsthal, Roller e Schalk della rinascita nel 1918 del Festival di Salisburgo. Reinhardt fu costretto all'esilio negli Stati Uniti a causa della sua origine ebraica. Ma lì cosa trovò? Qual è il primo lavoro che ha potuto compiere? Si tratta di un momento incredibile della storia artistica del '900, lui arriva e trova un cinema fatto pressoché interamente di emigrati dalla Germania. Gli danno l'occasione di mettere in scena il campione dell'umanesimo inglese, Shakespeare, con Il sogno da una notte di mezza estate, e chi gli scrive le musiche di scena? Un altro grande emigrato, Erich Korngold, che a Hollywood ha una seconda possibilità. E cosa fa Korngold per mettere in musica il capolavoro di Shakespeare con la regia cinematografica di Reinhardt? Si rifà a Mendelssohn, altro autore che in quegli stessi anni in Germania, la sua patria (faceva parte di una delle famiglie più colte della storia di quel Paese), veniva vietato nelle sale da concerto.

 



É in America che in quel momento si ricostituisce la cultura europea nel segno di un umanesimo in cui il caleidoscopio di culture è presupposto, ma nello stesso tempo anche maschera, di una profonda unità. A ben vedere, questi due temi dell'unità e molteplicità risultano apparentemente antitetici, ma sono nei fatti coabitanti. Ne L'aristocratico la sensibilità per l'assunto estetico è apodittica, ma coesiste con tanti altri tasselli che l'autore spera vengano colti dal lettore. Un breve secondo intervento del musicologo Emilio Sala conclude questa ricca presentazione. Rammenta che Francesco Maria Colombo gli ha eccepito due questioni, in effetti cruciali. La prima riguardante l'impianto autobiografico, che a lui lettore ha comunicato l'esperienza di un vissuto, da cui la presa di coscienza di non conoscere approfonditamente l'autore. In un'appassionante conversazione dove nulla in realtà è stato fuori luogo, si può lecitamente parlare di "memoires" come componente inscindibile dall'esperienza di un io. L'aristocratico spalanca le porte di un'esistenza, per questo è così coinvolgente. La seconda eccezione concerne la dominante estetica, considerata da Sala in senso etimologico. Non ritiene Colombo propriamente un esteta o un dandy (quest'ultimo un po' si), tuttavia questa prevalenza estetica non ostacola la percezione immediata del flusso narrativo, che si risolve non in una sovrapresentazione, ma in una presa diretta con quanto percepito. Centrale è l'io che abita Colombo, il quale percepisce le cose tramite un filtro che è tutto suo. Non ha nel momento in cui esperisce dei presupposti, ma piuttosto si abbandona in maniera associativa, come gli anelli di una catena collegati l'uno all'altro, al flusso dell'esperienza, trascinando il lettore in un "continuum".

 



Affiora quindi un senso più panico che tragico poiché la nostra vita è fatta di labirinti per lo più ansiogeni; come diceva Freud, tutti i sentimenti mentono tranne uno: l'ansia. Succede però una cosa molto importante: per una congiuntura astrale o per un virtuosismo personale di quell'io che abita Francesco Maria Colombo, in una zona molto avanzata di quest'abbandono, di colpo, come se accadesse un microevento che retroattivamente rimette tutte le cose a posto (ecco il verificarsi dell'effetto costellazione), si rivela un significato che corrisponde a una struttura, cioè quella del livello stilistico e specialmente l'intermediale. Questa capacità di unire l'abbandono, quindi anche la dimensione centrifuga, sempre aperta senza nessun presupposto in tutte le molteplici direzioni, per una sorta di piccolo miracolo, ma comunque di metamorfosi, specialmente verso la fine del viaggio che il libro fa, diventa occasione di conoscenza, non soltanto di sensazioni. L'aristocratico di Leningrado, scritto interamente a Berlino, è dedicato a Luigi Spagnol, prematuramente scomparso nel giugno 2020, uno dei più grandi editori italiani e l'uomo che ha spinto Francesco Maria Colombo a scrivere dei libri. Se non avesse accolto il suo invito, non l'avrebbe mai fatto. Spagnol ha fatto in tempo a leggerlo prima di lasciarci. Per Colombo Spagnol ha rappresentato uno straordinario faro intellettuale e una delle presenze affettive veramente importanti della sua vita. Questa presentazione, oltre al pregio di fornire una corretta informazione su questa perla letteraria, ha mostrato quella vivezza di dibattito che sola può nascere dalla "collisione", in verità garbatissima, tra pareri contrastanti. Un valore aggiunto per concludere in bellezza questa squisita serata primaverile milanese.

 




Alfredo Di Pietro

Aprile 2022


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