EZIO BOSSO CON GLI OCCHI DI FRANCESCO LIBETTA
LIGHTING BOSSO: FRANCESCO LIBETTA PLAYS EZIO BOSSO
22/11/2023. L'aria è pungente ma c'è una bella giornata di sole a Milano. Faccio quattro passi in zona, lungo i navigli, è troppo presto per presentarmi. Dopo una mezz'oretta abbondante entro in questo grande "Sancta Santorum" della registrazione audio, percorro un corridoio che conduce alle tre sale di registrazione e gli occhi mi brillano alla vista di un maestoso registratore a bobine professionale multicanale Studer A 827. L'occasione è ghiotta: gli eredi Bosso e Sony Music presentano dal vivo il primo progetto dedicato al repertorio per piano solo di Ezio Bosso, "Lighting Bosso. From Bosso to Libetta's transcriptions", dietro di esso c'è il lavoro di trascrizione di uno dei migliori pianisti a livello planetario: Francesco Libetta. Un evento che si consuma nell'ambito del Milano Music Week 2023. L'uscita di questo doppio album (CD ed LP) è prevista per il giorno seguente, etichetta la prestigiosa Sony Classical. Parliamo di ben due ore di musica, svariati brani e l'imponente trascrizione per piano solo del maestro pugliese della Sinfonia N. 1 Oceans. Sono nelle Officine Meccaniche Recording Studios, uno dei più importanti studi di registrazione italiani, un luogo che concilia passato e presente, proprio come il recital cui sto per assistere, in esso coesistono una tecnologia all'avanguardia e una strumentazione vintage, squisitamente analogica. Faccio il mio ingresso nello Studio A, il maggiore dei tre con i suoi 230 metri quadri, una delle più ampie sale di registrazione esistenti in Italia, in grado di ospitare un'intera orchestra sinfonica. Le sue pareti sono tappezzate di pannelli assorbenti e diffondenti (e si sente). Cerco di guadagnare un posto che mi consenta di scattare delle foto da una buona prospettiva.
Lo trovo. Davanti a me vedo un pianoforte Gran Coda Steinway & Sons modello D, fabbricato nel 1958, lo stesso anno della mia nascita. È un po' vissuto, ha il mobile in diversi punti leggermente scorticato. Comunque glorioso e perfettamente suonante. Dietro di lui una parete che farebbe la felicità di un gruppo Rock, anziano e non, con diversi amplificatori per basso e chitarra Marshall, Hiwatt e Sound City. Un po' di storia a questo punto non guasta. Inaugurato nel lontano 1962, lo studio è stato in seguito ristrutturato con tecnologie di nuova generazione, le quali però non hanno compromesso l'atmosfera "Sixties" che aleggia nelle sale, dove rinveniamo una preziosa collezione di strumenti appartenuti a Mauro Pagani (e qui si potrebbe aprire una storia nella storia), come chitarre, bassi e gli amplificatori che ho citato, strumenti classici ed etnici, tutti messi a disposizione della clientela. I locali che oggi ospitano le Officine Meccaniche, site in zona navigli, la più suggestiva di Milano, nell'ancor più lontano 1949 inauguravano il Centro Autarchico gestito dalla Cooperativa Bertacchi. Una fatalità a quanto pare: la musica già abitava l'edificio perché al proprio interno si trovava un grande "salone orchestrale" e, al di sopra di questo, un terrazzo sul quale si svolgevano concerti, feste danzanti, ma anche riunioni e comizi politici. Ritorniamo a bomba al 1962. Le sale del centro autarchico cambiarono nome per diventare gli Studi di registrazione sonora Regson, gestiti da Carlo e Umberto Zanibelli e Lidia Gualtieri. Ecco che il destino di quanto presente in Via Lodovico il Moro prendeva definitivamente la direzione della musica.
La spaziosa struttura, trasformata in studi di registrazione, divenne punto di riferimento imprescindibile per la musica italiana. Enzo Jannacci, Adriano Celentano, Vasco Rossi, Patty Pravo e molti altri musicisti registravano i loro dischi in questi studi, alla pari di celebrità straniere come Duke Elligton, Quincy Jones e Leo Ferrè. Anno cruciale il 1998, quando lo studio passò nelle mani di Mauro Pagani, con la collaborazione tecnica e ideativa di Paolo Iafelice, cambiando il suo nome nell'attuale Officine Meccaniche. È tutto un susseguirsi di musica, ininterrotto, dal 1949 sino a giungere alle nuove leve della musica italiana e internazionale. Scorrono come in un'immaginaria passerella i nomi di Elisa, Pacifico, Morgan, Daniele Silvestri, Samuele Bersani, Le Vibrazioni, gli Afterhours, i Soho, i Negramaro, Stefano Bollani, i Muse, i Franz Ferdinand, i Phoenix, aggiuntisi a nomi storici quali PFM, Fabrizio De Andrè, Massimo Ranieri, Roberto Vecchioni, Enrico Rava, Stefano Di Battista, Gianluigi Trovesi, Michael Nyman, Erika Badhu, John McLaughin, Diamanda Galas, John Parish, Jim Hall.
TRA MUSICA E PAROLE
UN ARMONIOSO PERCORSO
BRANI
Ezio Bosso (1971 - 2020)
- Adagio (Movimento IV) "White Ocean" (Antarctic) dalla Sinfonia N. 1 "Oceans"
- Finale (Movimento VI) "Landfall, We Unfold" (Indian) dalla Sinfonia N. 1 "Oceans"
Domenico Scarlatti (1685 - 1757)
- Sonata K. 208
Christoph Willibald Gluck (1714 - 1787)
- Melodie, dall'Orfeo ed Euridice. Trascrizione per pianoforte di Giovanni Sgambati.
Ezio Bosso
- Unconditioned, following a bird
Francesco Libetta
Alessio Bertallot
Introduce la serata di presentazione Alessio Bertallot, conduttore radiofonico, cantante e Disc Jockey italiano che ha avuto la fortuna di conoscere personalmente Ezio Bosso e seguirlo in quelle che chiama le tre fasi della sua vita. Nella prima non era un musicista universalmente riconosciuto come oggi, anzi c'era un po' di diffidenza verso di lui. Bertallot ricorda al pubblico un momento in cui ha compreso che Bosso era un po' in crisi, allora prese alcune sue registrazioni e le portò ad alcuni discografici, incontrando tuttavia un tiepido apprezzamento da parte loro. In ogni modo non accadde nulla ed Ezio si risentì per questo. Poi accadde un episodio destinato a sovvertire le cose, la sua partecipazione al Festival di Sanremo, nel 2016, che dette inizio alla seconda fase. Una sera uno di questi discografici era seduto in prima fila a un concerto che Bosso stava tenendo a Milano, e, poco prima dell'inizio, chiamò Alessio Bertallot dicendogli di non aver capito nulla e che si era sbagliato nel valutare la musica di Ezio Bosso. Questo narrazione dà la dimensione di ciò che gli è accaduto in queste prime due fasi. Ora siamo entrati nella terza, probabilmente la migliore. Placatosi ormai tutto il caos mediatico in cui il compositore era reputato un fenomeno, forse adesso inizia a essere considerato davvero per quello che in realtà era, cioè un musicista. Tuttavia, in quest'ultimo periodo pare essersi avviata una quarta fase, per usare la "catalogazione" di Bertallot, quella in cui nell'arte bossiana fa il suo ingresso un grande pianista come Francesco Libetta. Un autentico musicista a 360° che si è impegnato non solo in una trascrizione di alcune opere del compositore torinese, ma si è pure avventurato in una loro dettagliata analisi.
L'operazione lascia presagire un percorso non pianeggiante poiché, per riuscire a tradurre il mondo di Ezio Bosso è necessario fare una ponderazione che non metta soltanto in conto la dimensione tecnica, ma anche culturale e umana. Si è parlato nella chiacchierata seguita al relativamente breve ma intenso recital pianistico di un'iniziativa, catalizzata dal maestro Libetta, che odiernamente assume il valore di una storicizzazione della musica e del personaggio Ezio Bosso. Una "Lighting", appunto, un'illuminazione della quale lui sarebbe senz'altro contento. Un riconoscimento, duole dirlo, che lo accomuna con il destino di altri compositori, il cui calibro fu pienamente riconosciuto solo dopo la loro scomparsa. Il dialogo tra Bertallot e Libetta non ha mancato di toccare anche degli aspetti di prassi esecutiva. Accogliere una composizione concepita per una grande orchestra, trascrivendola per un solo strumento, implica l'andare subito a quello che è essenziale, naturalmente rivestito di appropriate prerogative. Importante allora è individuare l'ossatura strutturale sulla quale poi edificare la trascrizione, cogliendo ciò che quella musica ha veramente da dire. Scomparso il maestro tre anni fa, ora si tratta di definire per la prima volta le sue opere senza di lui, che ha sempre diretto ed eseguito le proprie composizioni. Solamente ora, dopo il polverone mediatico, si possono muovere i primi passi verità in direzione del suo lavoro, che è stato notevole nella mole. Nella sua non lunga vita Bosso ha composto davvero tanto: cinque sinfonie, trentatrè composizioni per orchestra, quindici opere per duo, undici per trio, sedici quartetti per archi, quindici composizioni per un solo strumento, diciotto brani di musica vocale, sei misti, sedici balletti, quattro opere, diciotto opere per il teatro, ventisei colonne sonore, tra lungometraggi (otto), cortometraggi (sei) e fil muti (dodici), più tre documentari.
È stato certamente investito di una grande responsabilità il pianista, compositore e direttore d'orchestra di Galatone. Bisogna innanzitutto partire con il piede giusto, aprire una nuova strada per nuove composizioni, che sono poi destinate a sedimentarsi dopo anni e anni in una tradizione esecutiva, tanto più che a essere in gioco è un artista come Ezio Bosso, radicalmente sincero in ogni sua manifestazione, lui che si è speso personalmente - e generosamente - anche nell'ambito autobiografico. Ma il vero contributo in tal senso riguarda in definitiva quello che nel suo intimo ha in comune con gli altri, segnatamente con chi lo ascolta. A riguardo di ciò lui è sempre stato molto attento, non solo dal punto di vista espressivo, ma anche di quello linguistico. La sua musica incontra la comprensione, come accade con certe lingue teatrali, anche da parte di chi magari non ha consuetudine con il mondo della classica, con il suo corteo d'informazioni, tradizioni, con le sue tipiche ritualità. E delle "liturgie" tipiche attinenti alla classica, al teatro e alla sala da concerto, la musica di Bosso può fare senza, mentre non può assolutamente fare a meno di una grande attenzione poichè è un'arte che soggioga anche con la fragilità del suono, con la sua esile vibrazione lasciata da sola. "Come tutta la buona musica", afferma Libetta, "è bene ascoltarla in un ambiente dove ci si può raccogliere". Diversi critici hanno classificato Ezio Bosso come compositore minimalista, di questo ramo della musica colta sorto negli Stati Uniti durante gli anni sessanta lui ha certamente assimilato il "modus operandi" della ripetizione costante di schemi semplici, le cosiddette "cellule", l'estrema scarnificazione del materiale musicale, quel continuo e progressivo cambiare, in modo quasi impercettibile, che solo in apparenza è statico.
Ma tali ripetizioni e sovrapposizioni ritmiche di cellule melodiche non di rado esitano in intelaiature sonore che possono diventare anche particolarmente complesse. Del minimalismo il compositore torinese ha in sommo grado (un brano come Unconditioned, following a bird lo dimostra in maniera lampante) lo scoccare di suoni singoli, isolati, sia note isolate che fulminei accordi, i quali vengono lasciati decadere sino alla loro estinzione. Ma cosa può dirci oggi la musica di Ezio Bosso? Viviamo in un mondo ipersonico, che vuole estendere il concetto di velocità anche alla musica, alle arti in genere e alla vita, con la tensione a privilegiare le cose concise, brevi. Se questo è il parametro da tenere presente, la produzione di Bosso è sin troppo facile da seguire, non presentando mai una reale difficoltà, però richiede impegno, questo si, perché va seguita nella sua narrazione e, come in tutte le storie, bisogna ascoltare la trama per capire dove si sta andando. Un irriducibile contemporaneo? Lui aveva, e la sua vasta produzione lo dimostra, una visione d'insieme della storia della musica, stava formulando una sua ipotesi molto precisa sulla formazione non di un singolo pezzo ma di un vero linguaggio. Si sa che è questo a creare la comunità e Bosso ha inventato un mondo intorno a se. Emerge dunque come compositore che ha una sua difficoltà esecutiva specifica. Ci sono quelli volti a creare dei veri meccanismi a orologeria, pensiamo a Ravel o Stravinskij, grandi trascrittori essi stessi, ma se uno strumentista suona diligentemente quello che c'è scritto, l'80% del pezzo c'è già. Poi ce ne sono altri, operisti in particolare o autori come Debussy, dove invece la musica va plasmata, in ogni rigo bisogna prendere delle scelte, un po' come quando si guida, dice Libetta, cioè aggiustando continuamente la traiettoria.
Così in Bosso: non si va dritti dall'inizio alla fine, ma si sterza. È difficile perché costringe a non abbassare mai la guardia, deve accadere sempre qualcosa sotto i nostri occhi, anche d'imprevedibile. Il tutto affidato alla "superbia" dell'esecutore, con delle inevitabili fluttuazioni da interprete a interprete, addirittura da esecuzione a esecuzione. A un certo punto del piacevole scambio d'idee tra Bertallot e Libetta affiora una questione importante: la storicizzazione dell'autore Ezio Bosso, considerato finalmente un autentico musicista e non come un anarchico un po' strano com'era ritenuto prima. Un eccentrico per certi versi un po' ingombrante o un fenomeno da televisione com'è stato poi dopo. Dal canto suo Libetta si chiede se l'aver avvicinato le opere e non la persona, rende un'impressione che parte già storicizzata. Per lui è come aver affrontato un pezzo di James Taylor o di Domenico Scarlatti. Si sanno più cose di Bosso che di Scarlatti, del quale in realtà si conosce poco, ma c'è una carta importante da giocarsi: la possibilità (e la fortuna) di poter chiedere a chi l'ha conosciuto da vicino, ora che c'è molto più materiale. Si sta registrando più spesso negli ultimi decenni di quanto non si facesse nel dopoguerra. Ma, disponibilità o non disponibilità di materiale, l'approccio cambia poco, si tratta di vedere come quest'opera funziona una volta defalcata dalla sfera personale di chi l'ha creata. Ritornando sul citato "Unconditioned, following a bird", Alessio Bertallot ricorda che Ezio lo suonò a casa sua, quando già presentava qualche difficoltà motoria. Girano degli aneddoti su Ezio Bosso, una persona che oggi vediamo già proiettata in una dimensione mitica. Non si annunciava mai, arrivava e diceva "adesso facciamo questo" e tu dovevi essere sempre pronto a seguirlo.
"Con lui non riuscivi mai ad andare a dormire", racconta, "nel senso che stava sveglio tutta la notte, mediamente a bere birra nei bar. Era estremamente simpatico, socievole, sempre circondato da persone. Non l'ho mai visto da solo. Aveva una qualità particolare da questo punto di vista. Una volta mi disse che la sua era una musica cellulare, quella era la forma che usava in continua ripetizione. Un modo d'operare tipico del minimalismo." Ma Bosso in verità è andato oltre Philip Glass, Terry Riley, Steve Reich o altri, appoggiandosi su questo genere per poi spiccare il volo verso orizzonti del tutto personali. Se la vediamo più da vicino, nella musica che lui prende come base, fatta appunto di ripetizioni che richiamano alla mente dei "pattern", più che un organismo c'è una componente tipicamente italiana, quella che attraverso l'Intermezzo della Cavalleria Rusticana arriva a tutto Rachmaninov e da lì all'universo. Procede come un viaggio che conduce verso un punto e poi ritorna da dov'era partito, è proprio questo il fulcro della sua musica, apparentata a un percorso emotivo che è anche drammaturgico, tecnicamente parlando, come appunto di un qualcosa che va da qualche parte per poi ritornare. Ma a differenza del Minimalismo, le composizioni di Ezio Bosso scoperchiano una dimensione più emotiva e coinvolgente. Da qui si perviene alle tendenze aggregative che riguardano la persona, ma sicuramente anche la musica, che non vuole imporsi con qualche tipo di artifizio o colpi di scena all'attenzione di chi ascolta, ma desidera coinvolgerlo in un itinerario. C'è da dire che esistono degli autori orientati verso atteggiamenti completamente diversi nei confronti del pubblico.
Bosso ha fatto anche alcune cose di Crossover con il Rap. Lo stesso Libetta ha manifestato un interesse per quei generi diversi dall'ambito classico, collaborando per esempio con il rapper Mad Dopa o con Franco Battiato. Si tratta di un comportamento sintomatico di grande apertura mentale, comunque divergente dall'ortodossia del concertista classico. Ma è ancor più strano come sia pervenuto a tali coinvolgimenti. Racconta di una sua prima collaborazione con un rapper. Avrebbe dovuto attuarla (cosa che poi non avvenne) perché invitato dalla compianta Vittoria Ottolenghi, una tra le più importanti esperte italiane di balletto, a interagire in un festival di Hip hop con un Disk Jokey, che poi scoprì essere Inoki. "Lei diceva una cosa molto interessante", racconta Libetta, "se pensiamo che anche nell'ambito della danza ci sono dei confini, certe volte delle vere e proprie barriere, tra l'accademica e la leggera. Secondo lei, quando c'è nel linguaggio del virtuosismo, e l'Hip hop è difficile da fare, bisogna mettersi sull'attenti e sentire con concentrazione." Si parla a questi livelli non più di un passatempo o di un capriccio ma di un'attività importante. Qualche parola è doverosa sul piccolo/grande recital di Francesco Libetta, che è stato parte integrante di un'avvincente serata. Siamo in presenza di un vero e profondo artista, che non si limita a sciorinare nota dopo nota, accordo dopo accordo, ma ha il potere di armonizzare sotto un'unica sensibilità linguaggi che possono essere molto diversi tra loro, in modo tale da renderne credibile l'accostamento. Lo ha fatto in questa memorabile serata del 22 novembre apparentando la Sonata K. 208 di Scarlatti con i due movimenti finali della Sinfonia "Oceans", suonando con la medesima plausibilità la Melodie di C.W. Gluck e Unconditioned, following a bird.
Ma qual è il destino di quest'operazione? In tanti casi la spinta a intraprendere un progetto di questo tipo non viene da qualche cosa che abbiamo davanti, ma che sta dietro. Una curiosità, una ricerca, dopodiché si vede, anche correggendo il tiro, sin dove si può arrivare. Una cosa è certa, questa trascrizione Libetta l'ha realizzata con il più grande gusto per sè stesso. È venuta bene e a quel punto, senza averlo minimamente programmato, è stata registrata e pubblicata. Nella vita di un artista si compiono dei passi che talvolta hanno insita una potenzialità ma non un punto preciso cui mirare. Dal progetto "Lighting Bosso. From Bosso to Libetta’s transcriptons" è stata tratta l'idea anche di una tournée dal vivo che parte da maggio e termina il novembre P.V. Fortunato chi ci potra essere.
IL MIO AVVICINAMENTO ALL'ASTRO EZIO BOSSO IN UN "AMARCORD" DI POCHI GIORNI FA
UN PICCOLO CONTRIBUTO PERSONALE
Prima del 22 novembre, complice una delle mie notti insonni, sullo stimolo di un recente ascolto radiofonico, ho risentito il quarto movimento della Sinfonia N. 1 di Ezio Bosso: Adagio "White Ocean" (Antarctic), nella trascrizione per pianoforte di Francesco Libetta, da cui alcune mie riflessioni. Sull'artista torinese, prematuramente scomparso nel maggio 2020 all'età di 48 anni, è lecito chiedersi se la grande notorietà di cui gode sia dovuta più che altro all'accostamento tra arte e lotta titanica contro la malattia, se la suggestione evocata dall'essere infragilito che trova nella musica una sorta di nobile catarsi possa aver condizionato la sua indubbia celebrità. La citata Sinfonia è il suo primo lavoro sinfonico, registrato nel 2009 con la Filarmonica TRT, un grandioso affresco in cinque movimenti sull'oceano Atlantico, Pacifico, Indiano, Artico e Antartico. Fu composta nel 2008, un anno non molto distante da quel 2011 in cui il maestro non solo subì un intervento per l'asportazione di una neoplasia cerebrale, ma fu anche colpito da una sindrome autoimmune neuropatica, poi diagnosticata come una forma grave di neuropatia motoria multifocale. La malattia peggiorò nel tempo, come tutte le degenerative, sino a costringerlo, nel settembre 2019, a cessare l'attività di pianista, poiché era irrimediabilmente compromesso l'uso delle mani. Credo che sia un'operazione scorretta separare le due cose, espressione artistica e malattia, capziosamente, allo scopo di giustificare la sua grande rinomanza con un evento biografico implicante lo stato di salute. Ezio Bosso era un artista profondamente sincero, serio, che credeva sino in fondo a quello che faceva.
Ebbi la fortuna d'intervistarlo nel febbraio 2020. Ricordo ancora la figuraccia che feci nell'aver scambiato un brano da lui suonato, il Preludio in si minore BWV 855a N. 18 di Bach/Siloti per un suo personale riarrangiamento. Si fermò per un attimo poi, con tono molto serio, mi redarguì dicendomi che tali errori non dovrebbero essere fatti da un "giornalista" (in realtà non lo sono, ma solo un appassionato un po' grafomane), come se avessi profanato un qualcosa, da cui la sua reazione composta ma indignata. Temevo che l'intervista finisse lì, ma proseguì, con io che sembravo un cane con la coda tra le gambe. Verso il termine l'atmosfera si fece più distesa, gli chiesi ancora scusa per l'errore e lui, con tono ora bonario, mi disse: "E vabbè, sono cose che possono succedere...". Ezio Bosso fu un compositore molto prolifico, tra sinfonie, composizioni per orchestra, da camera (duo, trii, quartetti per archi), per un solo strumento, musica vocale, opere miste, balletti, opere, teatro, colonne sonore per lungometraggi, cortometraggi e film muti, documentari. Ci si può allora interrogare oggi (o forse è ancora presto), a distanza di più di tre anni dalla sua scomparsa, sul reale valore dell'Ezio Bosso compositore. Non sono un musicologo, non posso quindi azzardare disamine analitiche sulla melodia, armonia, né sull'intima architettura delle sue composizioni, operazione che ritengo sostanzialmente inutile per un semplice ascoltatore, come smontare un orologio e descriverne ogni più piccolo pezzo senza poi centrare il risultato del meccanismo. Ma l'uomo la cui popolarità esplose a partire dalla sua partecipazione al Festival di Sanremo 2016 cos'ha davvero da dirci?
È possibile assodarlo o sono solamente classificazioni fittizie, per cui è meglio affidarsi alla propria sensibilità? Secondo una sua stessa dichiarazione, "Bisogna inventare nuove sonorità usando quello che già esiste". Una sinfonia come Oceans, ascoltata integralmente di notte, mi ha innanzitutto regalato un senso di grande vastità, enormi spazi acquatici edificati con dei mattoncini costitutivi che sono delle cellule ipnoticamente iterative. A un certo punto sopravviene l'incanto, la mente si sgancia dal corpo. La dialettica è punteggiata da frammenti solistici, uno l'ho riconosciuto evocativo del Preludio che dà l'incipit alla Suite N. 1 BWV 1007 di J.S. Bach. Con lo strumento della ripetizione, Bosso costruisce sapientemente degli stati tensivi prolungati, che sembra non abbiano mai fine, sino a estenuare l'ascoltatore prima della risoluzione, la quale spesso è violenta, fisica, bruscamente interruttiva (penso ai potenti colpi di percussioni che chiudono il primo movimento, Allegro giusto "To plough the waves" (Atlantic). Lampi di antiche fanfare romane. Una musica che ammicca certamente al minimalismo, un tipo sorto negli Stati Uniti durante gli anni sessanta in alternativa all'indigeribile serialismo e musica d'avanguardia. Prevede la costante ripetizione di schemi semplici, delle cellule iterative appunto, che il nostro utilizzò tuttavia in modo del tutto personale. Tra questi cataclismi sonori vengono inseriti degli episodi lirici che spezzano per un attimo il fluire delle note, delle ripetizioni che non sono mai a lungo uguali a se stesse, come in un processo di costante vivificazione e trasmutazione della materia sonora.
Ezio Bosso era un artista conscio del valore sociale della musica, un entusiasta del nuovo ma con intensi accenti di malinconia verso il passato, verso il classico, che ogni tanto compare in forma fantasmatica e isolata, per poi scomparire subito dopo, travolto dal flusso inarrestabile di quasi ossessive ripetizioni. E se una musica del genere aiuta a proiettarmi verso orizzonti sconosciuti, a favorire in me sensazioni che altri generi non possono darmi, la considero come utilissima integrazione e proseguimento del già noto, in un processo d'incessante inflorescenza. E vengono alla mente anche certi processi germinativi propri della vita e della natura, malattia compresa.
Alfredo Di Pietro
Novembre 2023