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giovedì 18 aprile 2024 ..:: Schubert - A portrait on guitar ::..   Login
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 Schubert - a portrait on guitar - Eugenio Della Chiara, Davide Cabassi, Mert Süngü Riduci


 

 

Accostandoci alla nuova creazione discografica Decca "Schubert - a portrait on guitar - Eugenio Della Chiara, Davide Cabassi, Mert Süngü", non possiamo non apprezzare la forte componente umana insita nella dedica al nonno Igino, instancabile lavoratore, e a tutte le altre vittime del COVID-19. Per inciso, la terribile pandemia ci ha portato al riconoscimento di istituzioni che considerano trascurabili le esigenze musicali di quello che viene ritenuto un pugno di mosche bianche, appassionati che in misura maggiore o minore soffrono delle secche limitazioni imposte all'attività concertistica. Tali decisioni sorprendono e irritano non solo i fruitori, ma anche e soprattutto chi fa il musicista di professione, disorientato (per usare un eufemismo) dal punto di vista alquanto balzano che considera una sala da musica, ligia alle direttive dei DPCM, come luogo più insidioso di un qualsiasi mercato rionale, pieno come un uovo di gente. Aperta e chiusa la parentesi. Sarà anche per la novità timbrica che ci porta questo novello CD, ma sin dall'inizio della D. 821 ho avuto la netta sensazione che la chitarra asciugasse quel surplus di patetismo che non di rado si presenta nella versione per violoncello, rendendo più agile e spigliata la dialettica tra i due strumenti. Non è un caso se le interpretazioni più convincenti di questa sonata, affidate al violoncello, sono proprio quelle dove si tende a smorzare più che enfatizzare il caldo "páthos" schubertiano, laddove cioè emerge una lettura abbastanza asciutta, in cui il pennello dell'esecutore è caricato di poco colore drammatico.

Ma la sicura attrattiva di quest'eccellente registrazione Decca non si esaurisce in questo, poiché al posto di un moderno pianoforte troviamo un fortepiano Conrad Graf Opus 362 del 1825, magnificamente suonato da Davide Cabassi, esso accresce il senso di levità che ispira quest'opera, la quale rischia di essere appesantita non solo dall'ubertosa voce del violoncello ma anche dalla stentoreità di un pianoforte moderno. Insomma, l'Arpeggione proposto in questa veste è davvero un'altra cosa e fa pensare a un colpo di genio concertativo. L'esito si condensa in un quadro di grande equilibrio, anche "decibelico", tra i due strumenti; ma ciò che in definitiva più conta è quell'affascinante "antichizzazione" operata sulla materia sonora, l'intimità dentro la quale l'ascoltatore viene calato, investito da un corteo di screziature affettive. Questo disco parla con voce sottile e allo stesso tempo cocente, paladino di quella sintesi poetica che è il più grande lascito all'umanità di Franz Schubert. Si tratta di un mondo interiore che parla sussurrando, cui non gioverebbe affatto quel rinforzo vitaminico conferito da un'emissione strumentale troppo altisonante. Basterebbe soltanto questo per rendere ricordevole quest'incantevole album. Eugenio Della Chiara, Davide Cabassi e Mert Süngü contribuiscono alla vivificazione di uno scenario di estrema suggestione, dove palese è la tensione al recupero di atmosfere primigenie, proposito che in realtà attraversa tutta la nervatura dell'album, insieme alla voglia di mettersi in gioco, di apporre la propria personale firma a questi capolavori.

 



Il giovane chitarrista marchigiano, infatti, oltre ad aver concretizzato una felicissima intuizione timbrica, non ha esitato a ritoccare in diversi punti la partitura, come lui stesso spiega con dovizia di particolari nelle note di copertina, scritte insieme con Fabio Rizza. In tal senso due sono stati , come ci racconta lui stesso, gli interventi più rilevanti operati sulle partiture. Il primo in Liebesbotschaft, dov'è stata reintegrata una battuta nella prima sezione, presente sia nella versione di Schubert che in quella di Liszt, e rimesse nella coda le armonie presenti nell'originale. Secondo intervento in Aufenthalt, dove ha rimesso in gioco la frase conclusiva della sezione maggiore, non presente nella versione chitarristica. Altre modifiche vanno nella direzione di un rimpolpamento di quegli accordi in cui si sentiva la necessità di una maggior facondia armonica. "Occasionalmente ho aggiunto", dice Della Chiara, "allo scopo di poter contare su un maggior sustain e di sopperire, almeno parzialmente, all'assenza dell'arco - delle acciaccature all'ottava bassa in corrispondenza di alcune note da porre in particolare evidenza." Ma se c'è la possibilità che tali rimaneggiamenti passino inosservati all'ascoltatore nella loro sostanza tecnica, non così per la ventata di brezza primaverile da cui viene investito. Ecco che la novità di un particolare stigma timbrico, frutto di una scelta precisa e anche coraggiosa, porta a discostarsi da un'ormai molto comune consuetudine concertativa. Tuttavia, la forte coesione che si è voluta dare a questo CD, quasi un Concept Album, non sta solo in questo ma anche in un elemento che aleggia costantemente: la cantabilità.

Ciò è segno di rispetto per la natura eminentemente sensoriale del suono, che tanta importanza ha in un'arte come la musica, ed ennesima dimostrazione che uno strumento come la chitarra, messo nelle giuste mani, può sfoderare insospettabili doti "vocali". Mi riferisco a quella vocalità "in itinere" che si prospetta sin dalle prime note dell'Allegro moderato, poi conclamata nel liricissimo Adagio, il quale nel ponderato equilibrio dialettico instauratosi tra i tre movimenti rappresenta forse il punto più alto della composizione. In questo sublime movimento in tempo 3/4, tonalità mi maggiore, a tratti si rasenta l'evanescenza del corpo sonoro, questo sembra giungere a noi da celestiali lontananze e a tutto fa pensare fuorché a un grande ed elegante "spot pubblicitario", come si dice nelle belle note di copertina. Beninteso, non voglio minimamente polemizzare con l'affermazione di Fabio Rizza, anzi sono perfettamente d'accordo con lui, visto che la D. 821 è un lavoro che fu commissionato a Schubert da Vinzenz Schuster, alfiere di quella sorta di ibrido tra il violoncello e la chitarra che fu l'arpeggione, strumento a sei corde escogitato dal liutaio viennese Johann Georg Staufer, il quale doveva essere suonato con l'arco e tenuto tra le ginocchia, esattamente come un "normale" violoncello. La storia ci racconta che ebbe vita effimera e negli anni trenta dell'800 era già stato praticamente dimenticato. Il fatto tuttavia di essere un lavoro d'occasione non lo priva di una rimarchevole valenza artistica: come un re Mida, Franz Schubert era in grado di trasformare in oro tutto ciò che toccava grazie alla sua sopraffina inventiva melodica e alle inconfondibili doti di sapienza armonica, forte delle quali il grande viennese sapeva rievocare qualsiasi stato emotivo umano con grande penetranza.

 

Davide Cabassi (foto di Michele Maccarrone)

Se la Sonata Arpeggione era innanzitutto un'opera fatta "ad hoc" per valorizzare le particolari risorse espressive di questo nuovo strumento, in primis la sua cantabilità nei registri tenorile e contraltile, cionondiméno colpisce nel segno per la tenerissima, sfumata malinconia di cui è circonfusa. Basti citare proprio le prime misure dell'Adagio, quelle nobilissime volute di semiminime ascendenti (si, mi, fa, sol) e discendenti (si, sol, mi, fa), porta d'ingresso per una dimensione che più avvolgente non potrebbe essere. Dalla limpidezza liederistica dell'Adagio si passa al movimento finale, il brillante Allegretto in la maggiore, disseminato di episodi virtuosistici (come d'altronde l'Allegro moderato) che i nostri due interpreti suonano si con scattante energia ma con un sicuro senso della misura, mai disposti a rinunciare a quell'aereo lirismo di cui tutta questa sonata è intrisa, tra l'altro in ottima concordanza con quella speciale timbrica che qui si è voluta valorizzare. Questo terzo e ultimo tempo è in forma di rondò, articolato in tre sezioni, ognuna dotata di una variegata stoffa espressiva. Nelle seguenti undici tracce sembra che Eugenio Della Chiara abbia voluto rinfocolare una sfida già lanciata con l'Arpeggione, dimostrando ancora una volta che anche uno strumento a corde pizzicate come la chitarra è perfettamente in grado di cantare. Con autentico sprezzo del pericolo l'ha fatto con un autore che ha sempre tenuto in gran conto le possibilità espressive della voce, impegnandosi nell'attraversamento di un autentico campo minato, capace di mettere impietosamente in luce l'eventuale "minus" di adeguatezza al cantare di qualsivoglia strumento.

Ed è proprio il tema della "cantabilità", declinato in una sorta di belcantismo chitarristico, quello che viene sviscerato per passi successivi, prima nell'ambito del duo chitarra/fortepiano, poi nel liederismo dichiarato (ma non supportato da una vera voce) dei Sechs Schubert'sche Lieder, sino a giungere al confronto diretto tra chitarra e voce. Un percorso affatto progressivo in cui si approda al convincimento di quanto questo fattore venga esaustivamente soddisfatto, pure nella "sfida" diretta tra Della Chiara e Süngü. Le tracce dalla quarta alla quattordicesima sono un'agile sfilata di "hit", dove la chitarra all'inizio rivendica la sua autonomia canora, nei sei lieder trascritti da Johann Kaspar Mertz, e poi si ricongiunge con una voce in carne e ossa. Con purezza commovente vengono toccati i principali motori della poetica schubertiana, sin da Lob der Tränen D. 711, su testo di August Wilhelm von Schlegel, dove si narra di un amore arricchito da fragranze primaverili, brezze balsamiche, profumi floreali, labbra fresche e baci fugaci, un quadro che contrasta con il dolore innescato dalla caducità delle cose e da quanto queste possano realmente soddisfare il cuore. Su ogni cosa si stende un velo di malinconia. In Aufenthalt, quinto lieder del ciclo Schwanengesang, scende in campo un pianto sconsolato che trova eco nell'ineluttabilità della natura, con lo scorrere impetuoso del fiume, la foresta ruggente e le cime fluttuanti degli alberi e la terribile consapevolezza che il dolore rimarrà per sempre scolpito nel nostro cuore, come minerale secolare nella roccia.

Di sublime fattura anche Das Fischermädchen, N. 10 del medesimo ciclo, dove emerge il desiderio che la fame d'amore sia soddisfatta da una bella pescatrice, in un costante confronto con la natura, a rammentarci che sotto la superficie di un sereno quadretto si nasconde un mare dalla profondità abissale e agitato da tempeste. Primo degli Schwanengesang è Liebesbotschaft, un lied dove l'innamorato chiede aiuto al ruscello affinché la corrente trasporti il suo messaggio all'amata lontana. Ständchen è, in assoluto, uno dei lied più noti del compositore viennese, canto accorato che assume le sembianze di una serenata notturna in un bosco. Tenera è la notte, sembra suggerire. Questa volta il desiderio d'amore si declina nei toni di una canzone morbida e implorante, cui fa da sfondo la natura, onnipresente nei lieder di Schubert, con la silenziosità del bosco, le cime degli alberi che in quest'occasione frusciano, sussurrando al chiaro di luna, e gli usignoli che fanno da richiamo. In Die Post, infine, tredicesimo lied del ciclo Winterreise D. 911, un corno di posta si sente suonare dalla strada, ma, con delusione, non porta nessuna lettera dalla città dove una volta il protagonista ha vissuto un amore. Il giovane interprete pesarese si conferma raffinato cantore del suo strumento anche nelle ultime cinque tracce, nell'atto di armonizzare la chitarra con la voce del bravissimo tenore Mert Süngü, che con incantevole poesia e rara maestria coadiuva, rafforzandole, le possibilità canore della Johann Anton Staufer (1840) e della Johann Georg Staufer (1815), utilizzata quest'ultima nella sola traccia 10, per il semplice motivo che la trascrizione dell'Alpenjäger è stata specificamente fatta per una chitarra "terzina" (che si accorda cioè una terza minore sopra rispetto alla chitarra normale).

 

Mert Süngü

L'entrata in campo del cantante turco potrebbe a questo punto mettere in discussione quanto sino a quel momento osato dalla chitarra, ma, al contrario, finisce per avvalorarlo in una fusione coloristico/espressiva davvero suggestiva. La strumento a corde allora appare tutt'altro che come mero elemento d'accompagnamento, ma avente dignità di autentico comprimario, disinvoltamente in grado di rivestire il ruolo sia di solista che di accompagnamento al canto. Succede nei cinque lieder schubertiani, insieme con altri trentaquattro ricopiati da Franz Xaver von Schlechta, poeta e chitarrista dilettante amico di Schubert, con l'accompagnamento trascritto per chitarra. Se quattro dei Sechs Lieder proposti nella prima tranche, quella per chitarra sola, sono estrapolati dal ciclo Schwanengesang (D. 957), una maggior libertà di scelta traspare dai successivi cinque lieder, che risultano più eterogenei non facendo parte di alcun ciclo. Facile fare la differenza tra i primi e i secondi e presagibile l'esito, il quale si sostanzia nell'intensificazione di una potenzialità già apparsa largamente autosufficiente nei "Sechs", ma che qui viene fertilizzata dal contributo dello splendido Mert Süngü. Con Alpenjäger ci troviamo di fronte a una tematica psicologicamente piuttosto complessa, dove si narra la vicenda di un giovane che vuole compiere il difficile passaggio dell'affrancarsi dal rassicurante tepore familiare per farsi un'esistenza propria. C'è un significato profondo in questo bellissimo lied: la volontà di avventura, giustificabilissima, non deve risolversi in un'aggressiva prevaricazione della natura, che va sempre e comunque rispettata: "C'è posto per tutti su questa terra".

Ecco che i suggerimenti materni non sono, banalmente, un richiamo a rifugiarsi nei valori del focolare domestico, ma bensì a vivere in accordo con ciò che ci sta intorno. Nel breve An die Sonne D. 270 si agita il sentimento della fine, il tramonto, cui segue il risorgere del sole in un incessante ciclo naturale. Die Nach, su testo di Karoline Pichler, è una sorta di "summa" degli elementi fondamentali dell'epopea schubertiana: su un fondale tenebrosamente notturno amore, morte, dolore, inganno, disillusione, ineluttabilità del destino e, infine, il conforto che proviene da un cuore comprensivo. La fine è riposta in un miraggio lontano: "Vedo solo un raggio di luce che brilla in lontananza, il mio sacro dovere appare in quella radiosità celeste." Definire toccante questo lied sarebbe riduttivo... Erster Verlust D. 226 porta l'autorevolissima firma di Johann Wolfgang von Goethe, una scintilla di sentimento agrodolce, reminescenza di uno stato di felicità smarrito che si desidera fortemente riassaporare, anche se solo in parte: "Ah, chi può riportare i bei giorni, quei giorni di primo amore, ah, chi può riportare indietro se non un'ora di quel dolce momento!" L'incanto si conclude con Der Wanderer D. 493, una sorta di testamento spirituale schubertiano dove affiora il potente archetipo dell'uomo in continuo viaggio, alla perseverante ricerca di una terra ideale e insieme reale che però non riuscirà mai ad abbracciare sino in fondo: "Sono uno sconosciuto ovunque. Dove sei, mia amata terra? La tematica di Schubert trova specchio e raggelante conferma nei segni di una natura sostanzialmente indifferente all'uomo.

Consiglio caldamente a chi vorrà impossessarsi di quest'album di leggere con attenzione le note di copertina, scritte a quattro mani da Fabio Rizza e lo stesso Eugenio Della Chiara. Le considero una specie di "manuale d'istruzioni" senza il quale potrebbero sfuggire molti di quegli addentellati che poi aiutano, in buona sostanza, a maturare un ascolto più consapevole. Per questo le ritengo molto importanti e non vanno per nulla considerate come un posticcio riempitivo di cui un CD dev'essere comunque corredato. Con inappuntabile precisione storica, Fabio Rizza ci fa comprendere quale fosse il vero rapporto di Franz Schubert con la chitarra (e, di riflesso, con l'arpeggione), una "liaison" più forte di quanto si possa credere. In quello che considero un vero e proprio saggio, si dice che parecchi amici di Franz Schubert suonavano la chitarra, sono citati nomi come Leopold von Sonnleithner, Josef Kenner, Johann Umlauff, Franz von Schlechta, Anna Frölich, Theodor Körner, Anselm Hüttenbrenner. Inoltre, nell'inventario dei beni del compositore sono registrate due chitarre, di cui una costruita da Johann Georg Staufer nel 1815 e l'altra realizzata intorno al 1805 da Bernard Enzensperger. Anche la testimonianza di Eugenio Della Chiara, scritta in uno stile che la dice lunga sulla sua grande sensibilità, getta luce non solo sui suoi esordi musicali e frequentazioni artistiche ma anche sulle ragioni della scelta d'interpretare i Sechs Schubert'sche Lieder, trascritti per chitarra sola da Johann Kaspar Mertz, e i cinque Lieder eseguiti in compagnia del tenore turco Mert Süngü.

Risaltano come note stilate con esemplare chiarezza, mai appesantite da sovrastrutture intellettuali o vezzi citazionistici, e che per questo arrivano tanto più dritte al cuore e all'intelletto. Mi preme sottolineare il fatto che questo progetto discografico va oltre la "passività" (il virgolettato è d'obbligo), di una fedele lettura e l'adesione a consuetudini interpretative consolidatesi nel tempo, ma implica la partecipazione attiva dell'artista marchigiano. A beneficio dei fruitori di questo bellissimo "A portrait on guitar", con sapienza ha messo mano alle partiture, modificando e integrando la scrittura dove reputava opportuno fosse necessario. Nonostante il metodico studio a monte, che potrebbe portare all'insorgenza di un retrogusto virante verso il "calcolato", la sensazione di una fresca spontaneità non viene mai meno. Miracoli dell'arte messa in mano a interpreti sinceri come Eugenio Della Chiara, Davide Cabassi e Mert Süngü. Un tono di fondo tutt'altro che roboante s'insinua in ogni piega di questo CD; è un valore aggiunto in un mondo di strepito e vacua ricerca di visibilità come il nostro. I nostri tre artisti vogliono intenzionalmente aprire un varco verso il concetto alla base delle Schubertiadi, riunioni di carattere informale tenute in case private viennesi dove si faceva musica. Tutto sembra andare in quella direzione, dall'intimità sonora di fortepiano e chitarra, chitarra sola o con la voce tenorile, alla delicata "texture" dell'incarnato poetico, nel riproporre un panorama musicale che rifugge da assalti frontali, ma preferisce percolare naturalmente nei meandri della nostra coscienza. Cimento in cui i tre strumentisti paiono trovarsi particolarmente a proprio agio.

Si tratta di artisti che aderiscono come una seconda pelle alla straordinaria opera di mimesi compiuta da Schubert sugli elementi esistenziali che stanno alle fondamenta della sua visione del mondo. E se oggi viviamo il fenomeno dei concerti in streaming, a sale desolatamente vuote, con il solo fuoco sacro dell'artista che illumina a giorno gli ampi spazi, questo lavoro ci riconcilia non con gli aspetti più solipsistici dell'arte d'interpretare, ma piuttosto quell'andare dal singolo cuore ai cuori, fiammella sempiterna dell'arte. L'album è stato registrato nel giugno 2019 all'Accademia Bartolomeo Cristofori (Firenze), e nel giugno/agosto 2019 alla Vereinshaus Peter Mayr (Lengmoos), e nell'agosto 2019. L'ingegnere del suono Michael Seberich ha fatto davvero un ottimo lavoro, impegnandosi a consegnarci una registrazione bilanciatissima, estremamente nitida e ricca di dettagli nonché rispettosa dei timbri originali degli strumenti.

Da audiofilo vi direi sommessamente d'impossessarvene non fosse altro che per questo ...


Alfredo Di Pietro

Gennaio 2021


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